venerdì 20 giugno 2008

Dialoghi sulla sconfitta / 7

DIALOGHI ALL'INDOMANI DI UNA SCONFITTA di Rino Malinconico
parte settima (12 maggio)
UN DIVERSO PARTITO POLITICO

ROSA Ma cosa pensate? che ce la faremo? Dico: ad uscire dal tunnel in cui ci troviamo?

CARLO Volete una risposta sincera?

FEDERICO Certo che deve essere sincera.

C. Allora, per parte mia, posso solo dirvi che non lo so.

F. Pensi che potremmo anche non farcela?

C. Sì, penso che potremmo essere consegnati ad un sostanziale silenzio, e per un periodo non brevissimo.

R. Cioè, permarrà la nostra condizione di extra-parlamentari...

C. Quello è il meno.

F. Alle elezioni europee dell'anno prossimo, sempre che non cambino la legge elettorale e non inseriscano una soglia di sbarramento al 4 o al 5%, è possibile che avremo dei seggi, sia che si presenti una lista comune della sinistra di alternativa, sia che si presentino più liste, tra cui sicuramente la lista di Rifondazione comunista.

R. Meglio, molto meglio tornare ad essere chiaramente il Partito della Rifondazione Comunista anche sulle schede elettorali! Sicuramente andremmo oltre il 3% del mese scorso!

C. Ma anche se prendissimo il 4 o il 5% non ci sarebbe un mutamento vero, non cambierebbero i termini di fondo, e cioè la questione della nostra sostanziale ininfluenza nella società italiana, e soprattutto la questione della sostanziale assenza di una positiva soggettività di classe nelle dinamiche sociali. Insomma è davvero reale la scomposizione del tessuto proletario, che pure quantitativamente, in quanto lavoro dipendente, e comunque subordinato, si estende ormai all'intera società, e ricomprende dentro la sua condizione quelli che una volta erano “ceti medi” e si caratterizzavano per l’erogazione di prestazioni professionali. E’ più esteso, ma è anche più frantumato, il proletariato del mondo di oggi.

F. Hai ragione. La scomposizione è un fatto reale, morde davvero nel profondo. E analogamente, nelle difficoltà che attraversano la stessa globalizzazione c’è la causa vera del crescere dei conflitti orizzontali, con il loro corredo di xenofobia e di chiusura identitaria. E se a ciò aggiungiamo la grande capacità di iniziativa politica delle destre, che riescono a intercettare i sentimenti di frustrazione e paura, svolgendoli in direzione di un nuovo identitarismo localistico e nazionalista ad un tempo, e con contenuti che sono assieme autoritari e clericali, e perciò con una miscela che ricorda molto da vicino quello che in altre epoche e con altre forme sono stati i fascismi, allora la cosa si fa veramente grave.

R. Ma ci siamo anche noi, c’è anche una soggettività politica non rassegnata, che si propone la trasformazione.

C. Sì ci siamo anche noi, ma ci muoviamo con troppo piombo nelle ali. Piombo di ogni tipo.

R. Certo, non si tratta solo di difficoltà organizzative, ci sono anche limiti teorici, di comprensione della realtà, di sottovalutazione dei rapporti di forza…

C. Io ho paura che la crisi sia ancora più profonda, perché investe, per ragioni diverse, tutte e due le principali generazioni che ancora si muovono sul piano della politica di alternativa e del conflitto sociale. E’ qualcosa che è molto visibile dentro Rifondazione comunista, ma vale per tutta la sinistra di alternativa, sia quella politica e sindacale, sia quella che si struttura a livello locale in comitati e associazioni. Mi riferisco, da un lato, alla generazione che si è formata negli anni Settanta, o che si è educata anche successivamente, ma comunque alla maniera degli anni Settanta; dall’altro, ad una più giovane generazione, che ha affiancato l’altra nel movimento no-global, con propri modi di essere e con propri linguaggi. Oggi entrambe possono dare poco.

F. Hanno già dato tutto quello che potevano. Questo intendi?

C. Come generazioni probabilmente sì. Possono restare dei singoli, traiettorie individuali che si collocano sul piano di una scelta ideale; ma come generazioni, come dinamica sociale collettiva, inclino a pensare che non abbiano più alcunché da dire, o da dare.

F. Delle due, quella degli anni Settanta è stata piuttosto coriacea. Ancora oggi, se guardiamo alle aree più o meno militanti, resta preponderante anche quantitativamente…

C. E’ una generazione che ha sentito molto l’etica della responsabilità e del sacrificio. Anzi, la massima kantiana di agire come se il criterio fondativo della propria azione potesse essere assunto a norma universale, il che costituisce il principio proprio della moralità moderna, veniva esaltata al massimo grado, e addirittura si snaturava facilmente in direzione di una vera e propria ipertrofia del soggetto: non solo le proprie azioni venivano vissute come se esprimessero in sé, immediatamente, un valore universale, ma anche come condizione stessa dell’universalità dell'universo-mondo. E’ stata una generazione “atlanteide”. In tanti, forse in troppi, si sono sentiti come Atlante che reggeva sulle spalle il mondo.

R. Con tutti gli errori, anche tragici, di scambiare la propria condizione, il proprio io e la propria volontà, per gli elementi realmente posti alla base dell’universo e della sua storia.

C. Certo, con tutti gli errori tipici del soggettivismo. Ma quello che qui voglio sottolineare è il sentimento forte del sacrificio e della responsabilità.

F. Ma questa generazione è ancora in campo.

C. Sì, ma è più stanca, è una generazione anche di sconfitti. E’ ancora capace di spirito di sacrificio, ma senza gioia. Può ancora dar vita a linee di resistenza, ma non riesce a produrre da sola una vera progressione in avanti.

R. Ci sono tuttavia i giovani, la generazione di Genova...

C. Questo è l’altro piombo che abbiamo nelle ali. La generazione intervenuta dopo, quella effettivamente nuova, formatasi nel movimento antiglobalizzazione o altermondialista o come diavolo vogliamo chiamarlo, è una generazione che ha maturato un individualismo compiuto; ed è attraversata compiutamente dagli stilemi della comunicazione mediatica, e perciò con una curvatura fortemente virtuale delle proprie percezioni. Agli atlanteidi sono succeduti i “narcisi”, ripiegati su se stessi. In quella espressione decisa, così ossessivamente gridata nei cortei contro la guerra in Iraq, e che pure conteneva tanta giusta voglia di protagonismo, e cioè: “non in mio nome”, l’accento cadeva esattamente sull'aggettivo possessivo. Era la prima persona singolare a parlare; non era “non in nostro nome”. Si tratta di un io, senza alcuna apertura collettiva. Questo individualismo, questo spontaneo ripiegamento su se stessi è ovviamente figlio dei tempi. E’ una generazione che ha davanti a sé un futuro nebuloso e un presente fatto di precarietà, di segmenti staccati l'uno dall'altro. E’ una generazione che vive senza tessuti connettivi intorno.

R. E’ la propria condizione materiale che li isola, i giovani d’oggi, che non li mette in comunicazione con quello che c’è intorno.

C. Esatto, mica ci sono disfunzioni genetiche! Ma un determinato tempo produce determinate figure umane, determinati sensi comuni. Se ci si ripiega su se stessi e sulla immediatezza del presente, la voce collettiva diviene più difficile a farsi.

F. E’ davvero terribile quello che dici.

C. Sì. Ma temo che le cose stiano proprio così. Lo spirito di sacrificio nasce quando c’è anche un futuro. Chi ha davanti una prospettiva sa anche sacrificarsi; chi non ce l’ha, è costretto a riempire il proprio sguardo solo di ciò che possiede immediatamente, e cioè se stesso e il proprio presente. E se a questo si aggiunge la forza dell'apparire rispetto all’essere, che oggi è la regola, diventa chiaro quanto pesi questo secondo piombo nelle ali.

R. Insomma, abbiamo, da un lato, una generazione stanca, con un grosso fardello di errori sulle spalle, che ha sbagliato perché ha lungamente ricondotto il mondo a sé; dall’altro, abbiamo una generazione con poche illusioni e perciò anche con pochi sogni collettivi, che tende a ripiegare continuamente in se stessa e perciò la dà vinta in partenza all'atomizzazione della società, allo stato di cose presenti…

C. E’ una sintesi efficace, che condivido.

F. Aspettate un poco. La realtà che viene fuori da questi nostri discorsi mi pare davvero tragica: c’è la scomposizione di classe, e quindi una crisi strutturale del conflitto; c’è la trasformazione delle istituzioni e delle forme della politica, con la conseguente crisi delle dinamiche di rappresentanza; c’è il dissolvimento dei modelli politici e culturali del Novecento, e di conseguenza anche la crisi delle ideologie e delle forme organizzate di queste ideologie, in particolare dei partiti politici di derivazione operaia. Ora scopriamo, in aggiunta, il venir meno delle generazioni attive: l’una perché stanca, l’altra perché attraversata dall'individualismo del nostro tempo. Mi sembra ce ne sia abbastanza per concludere non solo che un’epoca si è chiusa, ma che non ci sia pressoché più nulla da fare.

C. Questo è un esempio perfetto, se permetti, di ragionamento poco dialettico.

F. Che vuol dire?

C. Vuol dire tirare delle conclusioni assolute, là dove invece si chiede semplicemente di accompagnare i problemi al loro svolgimento.

F. Spiegati, perché davvero non ti capisco.

C. E’ presto detto: affermare che il conflitto, la rappresentanza, la forma partito, la stessa ideologia comunista siano entrati in crisi, non vuol dire che essi siano stati automaticamente cancellati dalla storia. Vuol dire semplicemente che sono davvero in crisi e che perciò chiunque pensi di poter continuare alla maniera di prima è un illuso. Ma sbaglia anche chi pensa di poter imboccare un'altra strada senza questo fardello di crisi sulle spalle.

F. Cioè?

C. Cioè occorre puntare ancora sul conflitto, sapendo però che deve essere condotto in modo nuovo; così come occorre continuare ad assumere la politica come rappresentazione di interessi contrapposti, ma tenendo fermo che la rappresentazione deve essere oggi la stessa cosa della costruzione.

R. Gli interessi contrapposti vanno non semplicemente rappresentati ma propriamente organizzati, costruiti proprio dentro la vita sociale.

C. Giusto. E vanno parimenti riproposti il tema della trasformazione e l’orizzonte del comunismo, ma liberandoli di tutte le incrostazioni stataliste e autoritarie che hanno accompagnato il secolo scorso. Anche la forma-partito, ovvero il luogo organizzato per promuovere conflitto, politica di contrapposizione e prospettiva di trasformazione, va totalmente ripensata.

F. Vorrei che su quest’ultimo aspetto ti esprimessi in maniera più chiara.

C. Bisogna percorrere vie nuove. Un partito che si richiami all’ideale del comunismo non può riproporre oggi il modello leninista delle avanguardie organizzate. E neppure il modello del partito di massa centralizzato di tradizione togliattiana.

R. Che deve essere allora?

C. Va chiarito innanzitutto ciò che non deve essere. Non può continuare, per esser chiari, a vivere in maniera assolutamente contraddittoria con la propria idea di società alternativa. Il comunismo prospetta l'estinzione stessa dello Stato, e cioè la sua riduzione a semplice struttura di coordinamento tecnico di una società aperta e costitutivamente attraversata dal protagonismo diffuso delle persone e delle loro libere associazioni. E però tutti i partiti comunisti si sono sempre organizzati in maniera esattamente speculare allo Stato moderno, con una segreteria che corrisponde al governo, un comitato centrale che corrisponde al parlamento, le commissioni di garanzia che corrispondono all'autorità giudiziaria.

F. Insomma, abbiamo riproposto dentro di noi ciò che volevamo abolire.

C. Ma questo poteva anche andare bene quando la prospettiva del comunismo era storicamente immatura, e cioè nell'Ottocento e per buona parte del Novecento, allorché valevano le regole sociali imposte dalla penuria dei beni e delle risorse, con una conseguente obiettiva sproporzione del tempo di lavoro socialmente necessario rispetto ai tempi di vita liberamente creativi e liberamente vissuti. Non era solo per il profitto dei padroni, ma proprio per riprodurre la stessa vita materiale che occorreva spendere l’intera giornata di vita, in una condizione di fatica ininterrotta. In quelle condizioni un partito che parlava di comunismo, ma che si organizzava secondo gli schemi dello stato di cose presenti, poteva anche non stridere eccessivamente. Ma oggi, quando c’è una maturità e anzi la necessità del comunismo, in presenza di uno scivolamento generale del capitalismo stesso verso la barbarie...

R. Sì, va bene; ma, in concreto, che tipo di partito occorrerebbe organizzare?

C. Te la dico così: un partito continuamente aperto alla società, attraversato continuamente da “gruppi in fusione”. L’espressione è di Sartre ed indica esattamente il contrario della condizione “pratico-inerte” e dell’andamento “seriale” che sempre caratterizzano le strutture organizzate, anche un partito comunista. Il “gruppo in fusione” è, invece, un insieme determinato e concreto di presenze, con gli sguardi che reciprocamente si incrociano e con un’attività effettiva e uno scopo reale, e anzi immediato, da realizzare. Occorre far vivere la vivacità dei gruppi in fusione senza cancellare il tessuto connettivo dell’essere partito. Ma questo partito dovrà, in tal modo, essere “a raggiera” e non “a piramide”, orizzontale e non verticale. Penso, insomma, ad un partito che viva come percorsi che si dispiegano e proposte che si discutono, con molteplici e variegate modalità di associazione.

F. Sicuramente un partito di questo tipo, così come lo tratteggi, sarebbe anche naturalmente centrato sul protagonismo delle compagne e dei compagni e praticherebbe al proprio interno quello che è straordinariamente mancato in tutti questi anni, almeno nella mia esperienza di militante, e cioè le condizioni di una democrazia effettiva. Il che vuol dire cancellare la logica dei ruoli a vita sia negli organismi di direzione del partito che nei compiti di rappresentanza istituzionale.

R. Nello statuto di Rifondazione queste cose ci sono.

C. Ci sono, ma su questo ha perfettamente ragione Federico: non sono mai state davvero praticate. E questo la dice lunga sul fatto che non si è capito che “il modo di essere” è esso stesso un contenuto dell’essere. E anzi, di questi tempi, quando dobbiamo ricostruire una capacità di dialogo con la società, il nostro modo di essere è esattamente il primo contenuto che cade sotto gli occhi.

F. Ma poi si tratta anche di rafforzare ulteriormente i dispositivi dello Statuto. Dovremmo saper costruire un partito che abbia come suo elemento costitutivo proprio la critica della politica, ovvero la critica agli elementi di separatezza, di logica meramente gestionale e di orizzonte puramente governista che caratterizzano il normale “fare politica”. Avremmo bisogno, in altre parole, di circoli che assomiglino a vere e proprie “case del popolo”, abitate da soggettività articolate, plurime, che trovino il loro momento unificante nella discussione e nell’iniziativa, e che vivano i ruoli esecutivi come ruoli semplicemente a termine.

R. E’ difficile vederlo un partito del genere, immaginarlo…

C. Meno di quanto sembrerebbe, Rosa. Cosa vieterebbe, ad esempio, di superare la figura del segretario politico di circolo, di federazione, o anche nazionale, e di designare invece, al suo posto, dei portavoce annuali, magari contemporaneamente un compagno e una compagna, per sottolineare la parità di genere? Per un anno, un anno e mezzo, svolgerebbero la duplice funzione di rappresentanza esterna e di coordinamento del lavoro, e poi questa incombenza passerebbe ad altri. E a loro volta le segreterie, o meglio gli esecutivi locali, provinciali e nazionali potrebbero essere costituiti da compagni e compagne designati dai gruppi di lavoro e dai territori, anch’essi in una logica “da portavoce” e “a tempo determinato”.

R. Un partito così fatto mi sembra molto il partito del disordine permanente.

C. E’ vero. Ma l’idea di contrapporre all’ordine del sistema, un ordine simmetrico, che se ne differenzia solo per i contenuti e non per il modo stesso di essere e di proporsi, è una idea sbagliata. Bisogna essere alternativi in senso proprio, nel modo di essere non meno che nelle cose che si dicono.

R. In astratto un partito senza ruoli fissi è certamente una buona cosa, anche seducente. Ma al di là della difficile praticabilità di questo turn over delle funzioni dirigenti, ci potrebbe essere una conseguenza pesantemente negativa, e cioè che la riconoscibilità del partito, le sue figure di riferimento si dislocherebbero inevitabilmente sulle compagne e sui compagni con ruoli istituzionali. Invece di avere un partito dei segretari rischieremmo di avere un partito dei consiglieri, degli assessori, o dei deputati, quando ne avremo di nuovo...

F. Se non è che questo, il rimedio ci sarebbe: basta riproporre anche a livello istituzionale una logica di rotazione, di circolarità, per esempio facendo valere il principio contenuto appunto nello Statuto di Rifondazione, estendendolo a tutte le funzioni istituzionali. Lì si stabilisce un massimo di due mandati, equiparando i consigli e le giunte regionali col parlamento e il governo nazionale. Sarebbe opportuno invece far valere il principio delle due funzioni istituzionali in modo ancora più esteso, comprendendole tutte nell’elenco, in maniera paritaria, dal consigliere di municipalità al senatore della repubblica. Per nessuno dovrebbe esserci deroga: avremmo in tal modo un turn over anche per le nostre figure istituzionali.

R. Questo mi pare ancora più difficile del ricambio dentro il partito. Sul piano istituzionale contano i voti degli elettori e gli elettori guardano anche alle persone. Non è la stessa cosa mettere in lista Caio invece di Sempronio…

C. Questa osservazione risponde al vero. Ma noi siamo chiamati a fare battaglia attiva, a far valere il principio della partecipazione diretta, a contrastare la cultura della politica come luogo separato, consegnata a degli specialisti con una semplice scheda elettorale. Per un partito che ha come suo orizzonte il governo della realtà che c’è, e non la sua trasformazione, ha senz'altro senso funzionare alla maniera della politica di oggi, con il leader, o l’aspirante leader, o il sotto-leader, che dallo schermo televisivo parla all'elettore seduto in poltrona o sul divano. Non c’è bisogno di azione da parte delle persone, esse devono solo ascoltare. Molto diverso è il nostro caso. Noi vogliamo trasformare la realtà che abbiamo davanti; siamo, nella nostra ispirazione di fondo, costitutivamente rivoluzionari: per noi non va perciò bene il ridurci ad una appendice della faccia che dal televisore parla al telespettatore. Le persone in carne e ossa noi dobbiamo coinvolgerle attivamente in una comunità, facendo vivere davvero quel “paese nel paese” con cui tante volte, parafrasando Pasolini, riempiamo i nostri discorsi.

R. Alzo bandiera bianca. Alla tua logica stringente, e al richiamo alla nostra identità rivoluzionaria, non posso obiettare alcunché.

F. Ma un partito come quello che abbiamo delineato riuscirebbe poi a fare politica?

C. Certo. Sarebbe un partito organizzato comunque per fare politica, ma politica in un altro modo. Se per politica intendi la logica delle partite a scacchi, delle “mosse del cavallo” che sparigliano le strategie avversarie, del sacrificio dei pedoni, dell’insidia da tutti i lati alla regina, della sistemazione più opportuna degli alfieri e delle torri per minacciare il re, per cui sullo scacchiere della pura attività di rappresentanza noi strutturiamo collocazioni, lanciamo campagne, prendiamo posizioni., in una logica tutta centrata sulle relazioni che costruiamo o che scompaginiamo rispetto alle altre forze politiche, allora il partito che qui si prospetta -aperto, continuamente attraversato da collettivi di lavoro, ricco di dibattiti e iniziative, luogo di elaborazione e di convivialità ad un tempo, orizzontale e molecolare nel suo modo di funzionare, proiettato nella sua azione sui problemi immediati non meno che sulle trasformazioni epocali- questo tipo di partito sarebbe senz’altro inadeguato. Ma la logica della politica come gioco di scacchi tra avversari che si studiano, e che, mossa dopo mossa, alimentano un dibattito totalmente separato dalla vita di ogni giorno, può essere tutto fuorché rivoluzionaria. Sta nel perimetro del gioco, sulla scacchiera appunto. Non rovescia il tavolo, non propone altre cose al di fuori della partita che gioca. E’, insomma, una idea della politica totalmente congruente con le logiche di conservazione del sistema. Poi si può certamente essere polemici, dire cose giuste, fare denunce appropriate: ma se la cultura che ci muove è del tipo della “rappresentanza” invece che della costruzione della soggettività antagonista, resteremo pur sempre dentro lo scenario di ciò che c’è, con la nostra piccola “parte in commedia”, quella del bastian contrario, quella che sottolinea le incongruenze del testo, che arriva anche allo sghignazzo e all’invettiva rabbiosa, ma che, per restare alla metafora teatrale, non rompe mai la “quarta parete” e alimenta anch’essa la separazione tra l’al di qua e l’al di là del sipario. La gente concreta, per questa via, anche noi contribuiamo a mantenerla nella condizione di un pubblico che assiste.

F. Certo che è proprio difficile fare i rivoluzionari. E poi adesso, in queste condizioni, con noi che siamo appena uno sputo nel deserto…

R. Già, non è che ci manchino le idee; è che non abbiamo la forza per attuarle.

C. Sì, può essere anche che non ci riusciremo.

R. Allora tu pensi che non ce la facciamo? sì, dico, ad uscire dal tunnel in cui siamo capitati?

C. Vuoi una risposta sincera?

R. Certo che deve essere sincera.

C. Non lo so. Questa è la mia risposta: So solo che dobbiamo provarci. Anche se poi non ce la faremo.

R. Allora perché provarci?

C. Perché è giusto.

F. E perché siamo comunisti.

R. Che di questi tempi non so più se sia una disgrazia o una fortuna..

C. Sicuramente una disgrazia. Ma allo stesso modo che è una disgrazia la condizione di ogni essere umano. Guardare senza veli l'ingiustizia e sapere al tempo stesso che una condizione decente di vita per tutti è davvero possibile, e che l'uomo potrebbe forse essere felice: tutto ciò è straziante, ma è anche quello che ci permette di dare un senso al nostro stesso vivere.

F. E poi noi non sapremmo fare altro, perché abbiamo il maledetto vizio di sentirci parte di un tutto.

R. Proprio così. E allora andiamo ancora avanti, con un’impresa collettiva che non si sa dove ci porterà davvero...

C. Ovunque vorrà condurci ne sarà valsa la pena. Qualcuno diceva che non è tanto importante il porto che si raggiunge ma il viaggio che si intraprende, col soffio del vento tra i capelli e lo spruzzo delle onde sulla nave.



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