sabato 10 maggio 2008

Dialoghi sulla sconfitta / 2

DIALOGHI ALL'INDOMANI DI UNA SCONFITTA di Rino Malinconico

parte seconda: IL CONTO DELLA STORIA


ROSA Avete visto? Sembra che si vada di male in peggio. La sinistra arcobaleno sta dando veramente prova di quello che è. C'è chi fa la costituente dei comunisti, chi fa la costituente ambientalista, chi fa la costituente della sinistra, c'è chi vuole tornare all'anno scorso, c'è chi vuole andare nel PD. Non ti pare, Carlo, che dopo la tragedia si sia già caduti nella farsa?

CARLO No, la tragedia resta. E le diverse articolazioni che si registrano in questi giorni e in queste ore non aggiungono e non tolgono nulla alla sostanza delle cose. La crisi che attraversiamo non è principalmente di linea politica, ma è più di fondo.

FEDERICO Già. L'altra volta dicevi che la questione è proprio di ragionare sui massimi sistemi.

C. Lo confermo. La questione riguarda i nodi di fondo. Il risultato elettorale del 14 aprile ha svelato la nostra debolezza strutturale. E’ questa che deve essere indagata.

F. Usando questo termine, “debolezza strutturale”, mi fai capire che siamo affetti da un male dal quale non si guarisce semplicemente con un nuovo indirizzo politico; un male che dipende soprattutto da processi storici oggettivi e solo in minima parte dai nostri errori.

C. Non estremizzare il discorso. I nostri errori pesano, ed hanno pesato, nel dare consistenza a questo male. Tuttavia dici bene sul punto decisivo: la nostra crisi dipende largamente da un processo più vasto, che come soggettività politica noi non controlliamo e sul quale possiamo intervenire solo in parte. Ma non è indifferente se ci interveniamo oppure no; come non è indifferente, proprio per delineare l’intervento più opportuno, se capiamo le caratteristiche di questo male oppure no.

R. Ma a cosa ti riferisci? Al fatto che il Novecento si è chiuso?

C. Sì il Novecento si è chiuso, e questo vale per tutti. Ma per noi specificamente vale, a mio avviso, in tre direzioni, che sintetizzerei così: la nuova dislocazione del valore e la conseguente crisi della dialettica sociale, che è la madre di tutte le questioni; le nuove forme storiche della democrazia e la conseguente crisi della dialettica politica; la parabola storica delle formazioni comuniste del ‘900 e la conseguente crisi della forma-partito.

R. Hai detto niente! Quelle che hai elencato sono questioni epocali!

C. Ma noi siamo esattamente ad una svolta d'epoca.

R. Ma di questioni così non se ne viene mica a capo in una discussione! E neppure in cento discussioni.

C. Non si tratta tanto di definirle in termini di parole; si tratta piuttosto di assumerle come questioni fondative del nostro modo di essere.

R. Cioè?

C. Si tratta di tenerle ben presenti qui, davanti a noi, e di cimentarsi nella comprensione, nella ricerca di risposte utili. Si tratta di avviare un cammino proficuo all'interno di tali questioni, non già dall'esterno ma proprio all'interno dello spazio che esse segnano nella storia e ci consegnano nel vivere concreto.

R. Più facile a dirsi che a farsi.

C. Ma forse, paradossalmente, è proprio il contrario: è più facile a farsi che a dirsi. Prendiamo, ad esempio, la questione fondamentale della nuova dislocazione del valore. La creazione di valore, che nella lettura di Marx equivale, giustamente, al concreto processo di sfruttamento, oggi non avviene più con le modalità tipiche dell'Ottocento o anche di gran parte del secolo scorso. Non è più il semplice tempo di lavoro non pagato al lavoratore dal capitalista a determinare il plusvalore, entro uno spazio chiaramente definito e circoscritto del meccanismo di produzione; bensì è la potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro a costituire, come già prevedeva lo stesso Marx delineando gli scenari futuri del capitalismo della sua epoca, il vero, grande pilastro della produzione della ricchezza e dunque anche del processo di valorizzazione del capitale. E questa “potenza degli agenti” non va riferita semplicemente alla maggiore sofisticazione tecnologica dei macchinari: va invece rapportata proprio alla struttura integrata delle dinamiche produttive.

F. Questo, forse, ci è abbastanza chiaro. Del resto te l'abbiamo già sentito fare altre volte il discorso della produzione capitalistica che si estende progressivamente a tutto il vivere sociale: le macchine più sofisticate agiscono in sinergia con la rete dei servizi, con la catena della logistica e della distribuzione, con le infrastrutture, con l'istruzione, con le attività di coesione sociale. In questa progressiva totalizzazione del rapporto di capitale, tutto concorre a potenziare i tempi di lavoro immediati, per cui è propriamente l'insieme a fondare la produzione della ricchezza e a reggere il processo della valorizzazione: il livello di combinazione tecnica della produzione, il grado di cooperazione sociale del lavoro, la mobilitazione produttiva del corpo sociale, finanche l’irregimentazione dei tempi e degli stili di vita...

C. Esatto. Ma quello che a noi ora interessa sono le conseguenze. Il fatto nuovo è che nell'epoca compiuta della totalizzazione lo sfruttamento diventa generale, si estende all'insieme delle figure sociali e all'insieme della vita di relazione, si estende, in progressione, all’intera esistenza degli uomini e delle cose. Tutto diviene merce e tutto diviene potenza. produttiva.

F. Ma in tal modo l'esercito degli sfruttati dovrebbe essere molto più forte di prima, più numeroso, più articolato, più ricco di competenze al proprio interno. Invece assistiamo esattamente alla disgregazione, e quasi alla dissoluzione di un punto di vista autonomo del proletariato.

C. Sembra un paradosso, ma non lo è. Il punto decisivo è che proprio questo universalismo dello sfruttamento e della condizione proletaria rende difficile le dinamiche della coscienza di classe.

F. Piano, questo passaggio mi pare un po' ostico.

C. E’ meno ostico di quello che sembra. Prova a ragionare così: una qualsiasi soggettività, io, tu, lei, perché si ritrova ad esser tale?

F. Tale come?

C. Tale, appunto, come soggettività, come un io distinto dagli altri io.

F. Ma perché… perché si riconosce con delle particolarità.

C. Sì, ma com’è che arriva a riconoscere su di sé delle particolarità?

F. Oh, bella! Perché sa di avere caratteristiche specifiche, che altri non hanno.

C. Giusto. Ciascuno di noi si percepisce subito distinto dagli altri. Ma il presupposto di questa distinzione è esattamente che ci siano degli altri di fronte all’io. La costruzione della soggettività, il porsi come un io, è possibile perché ci si separa, prima biologicamente, poi per sensazioni, poi per pratiche di vita, da ciò che io non è. Risiede proprio nell’elemento oppositivo a me la condizione possibile che apre al definirsi del mio io, alla dinamica della coscienza che mi porta continuamente a riconoscermi come me stesso. Vale per le singole persone, vale ancora di più per i soggetti collettivi. Il proletariato come classe, come realtà che si muove sul piano storico, e quindi come soggetto della storia, oggi vive un processo di auto-costruzione molto più difficile, e ciò esattamente perché sui luoghi di lavoro, e negli stessi luoghi di vita, fatica a visualizzare ciò che non è proletario. Anche lo stesso operaio di fabbrica non ha più di fronte il padrone, ma proprietà impersonali; non ha più nemmeno la semplice palazzina della direzione, ma un articolato sistema che è assieme di lavoro e costrizione, che è sfuggente e interattivo, nel quale i tecnici, anche i tecnici di alto livello, sono essi stessi tendenzialmente proletari; e nel quale, soprattutto, la relazione di sfruttamento non si ritrova immediatamente, perché vive solo a scala generale.

F. Insomma, quello che tu sostieni è che la dialettica della soggettività di classe dell'Ottocento, o anche del Novecento, prevedeva chiare e nette demarcazioni: da un lato il proletariato, dall'altro la borghesia, in mezzo le cosiddette classi intermedie. E che ora non è più così. Ho capito bene?

R. Qualcuno ha sostenuto che il proletariato scompariva...

C. E invece ad essere, non dico scomparsa, ma profondamente modificata è stata proprio la borghesia. E’ questa che il proletariato non trova più di fronte a sé come altro da sé. Alle classi sfruttatrici è subentrato un sistema che si autoriproduce con le modalità di uno sfruttamento divenuto davvero generale, più esteso e più intenso, riferito a tutti i tempi e a tutte le attività, e che, in progressione, ricomprende sotto di sé la quasi totalità degli esseri umani.

R. Ma questo che vuol dire? I ricchi non sono mica scomparsi…

C. Certo che i ricchi continuano ad esserci; e ci sono anche i borghesi. Ma non sono più l'altra parte del sistema. Di fronte ai proletari sta oggi il sistema nella sua nuda essenza, nella sua astrattezza, e non già più altri uomini concreti. E di quel sistema, cioè della sua essenza, il proletario è al tempo stesso protagonista e vittima. In questo si dà il corto circuito della costruzione della coscienza.

F. Voglio vedere se ho capito. Tu dici che gli operai ci sono, anzi i proletari, ed essi coprono la quasi totalità del lavoro dipendente. E però non diventano, che riescono a diventare classe operaia, ovvero “proletariato”, perché lo sviluppo stesso del capitalismo ha reso evanescente la classe nemica. E di conseguenza il proletariato fatica a definirsi come classe. E anzi, introietta, se ho capito bene, le stesse ragioni del sistema.

C. Sicuramente è così. Nell'Ottocento e anche nel Novecento, se i salari erano bassi, si percepiva subito che succedeva perché i padroni ci guadagnavano. Oggi questa percezione stenta. Trovi non di rado operai ed impiegati, magari anche precari, che guadagnano appena 1000, 1200 euro al mese, che pure si lamentano, ovviamente, dell’impossibilità di vivere, ma che ragionano, quanto ai rimedi, quasi alla maniera de “Il sole 24 ore”: si dichiarano convinti che il nodo dei salari è legato all’aumento della produttività piuttosto che ai profitti, che occorre aumentare la ricchezza per poterla distribuire, che occorre reggere la concorrenza anche con la flessibilità del lavoro, e che se le aziende vanno male è anche per i troppi vincoli che pone lo Stato, per le troppe tasse, e via dicendo...

F. Fosse solo questo! Se la prendono anche con gli zingari e con gli omosessuali; e invocano ordine e pulizia, nonché polizia, con parole e proposte chiaramente di destra...

C. Pure questo si spiega. Se viene meno l’identità collettiva, si resta semplici individui in balìa della propria esperienza immediata. Per un operaio o per un disoccupato, l'immigrato è un concorrente; ed allo stesso disoccupato o operaio, in quanto cittadino, una pronunciata diversità di stili di vita e di comportamenti attorno a lui provoca un evidente problema psicologico di convivenza e relazione, ed è perciò spontaneamente avvertita come un fastidio. Poi, se c’è chi soffia continuamente sul fuoco, viene percepita anche come una minaccia. Insomma, se le contraddizioni “in verticale” tra proletariato e borghesia diventano confuse, si ingigantiscono immediatamente le contraddizioni “in orizzontale”, quelle col proprio vicino, con chi sta fisicamente di fronte.

R. Ma guardate che se realmente siamo a questo punto, c’è davvero ben poco da fare. Tu, Carlo, parlavi di qualcosa che era più facile a farsi che a dirsi, ma in una condizione così disgregata come si fa a recuperare il conflitto di classe?

C. Intanto capendo bene, per prima cosa, che l'identità di classe non è un dato di partenza e che il problema non è semplicemente di rappresentare quell'identità sul piano della politica. L'identità deve essere ricostruita anzitutto sul piano sociale. Si tratta di un lavoro certamente complesso, ma per cominciare, lo ripeto, bisogna comprendere bene da che punto si parte. Tanto più che non è soltanto in crisi il conflitto sociale, ma anche il conflitto sul piano della politica.

F. Già. Nel tuo elenco dei problemi hai posto anche la questione delle nuove forme della democrazia.

C. Sì, è questo il secondo grande terreno del mutamento epocale che stiamo vivendo. La forma-stato e l'articolazione della politica si sono rapidamente trasformate negli ultimi decenni. Siamo passati, per dirla in breve, dalla politica come luogo di confronto, e anche di scontro, fra interessi sociali diversi e contrapposti, alla politica come puro governo della complessità. Proprio perché l'universalità della condizione capitalistica ha confuso, sul piano sociale, le linee della contrapposizione, la politica può ora registrare soltanto la grandezza e la complessa struttura dell'insieme. E di fronte a questo insieme indistinto, essa può porsi solamente come “puro governo”.

R. Ma in realtà la capacità di governo della politica è venuta meno proprio nel quadro della globalizzazione. Non sei d’accordo?

C. Sì, e non c'è contraddizione con quello che ho appena detto: la politica come governo della complessità è semplicemente un accompagnare la complessità stessa. Il sistema si autoriproduce e si espande per sue proprie dinamiche; la politica, divenuta ormai semplice governo, può soltanto accompagnare il movimento e togliere dalla strada tutto ciò che può fare inciampo. In questo senso, essa è intimamente autoritaria.

R. Ma è un autoritarismo di tipo nuovo, non semplicemente il vecchio fascismo.

C. Certo, le forme non sono, non possono essere, quelle del vecchio fascismo. Anche se ci andrei cauto a definire il vecchio fascismo come semplice dittatura.

F. Il fascismo fu totalitarismo e dunque una effettiva irregimentazione della società, una determinata capacità di modellarla.

C. Appunto. La politica autoritaria di oggi, rispetto al vecchio fascismo, è facilitata nel suo compito dal fatto che la società ha assunto una fisionomia già inquadrata per forza propria. La politica tutto può fare fuorché mettere in discussione le coordinate che il capitalismo ha fissato per l'insieme del corpo sociale.

F. Quello che tu dici mi sembra giusto. Si spiega così anche il fatto che i programmi dei partiti si assomigliano tutti, che i politici dicono grosso modo le stesse cose e che è così facile scambiarsi di posto nei parlamenti dei paesi a capitalismo avanzato.

C. Sì, la politica non procede per linee alternative ma per dinamiche di alternanza. E gli uomini in carne ed ossa, con le loro individuali biografie, valgono, in tale quadro, più delle loro proposte e dei loro programmi. Anzi i partiti diventano proprietà personali, con il nome del leader nel simbolo.

R. E però, se ho inteso bene, tu stai dicendo qualcosa di molto serio, e cioè che all'interno del sistema democratico non è possibile delineare nessuna alternativa di società.

C. Sì, l'alternativa di società non può nascere dall'interno dell’attuale sistema democratico. Anche solo per poter cominciare a muoversi, essa deve dotarsi di una sua vita autonoma, parallela e contrapposta. Deve chiamare ad una partecipazione “altra”, al di fuori del sistema.

R. L'esodo, di cui parla Negri?

C. Sì e no. C’è un primo movimento indispensabile che è il “chiamarsi fuori”; è c’è un secondo movimento che è il costruire in modo alternativo. All'attuale democrazia, in concreto, vanno praticamente contrapposti gli istituti di democrazia diretta, non con una modalità di pura separazione, ma facendo in modo che questi premano su quella e strappino risultati utili sul piano sociale; e che, di conseguenza, crescano nello stesso assetto della società, come suo specifico punto di crisi e di ricostruzione alternativa.

R. Ma in un tale quadro ha poi senso definirsi come partito comunista? ha senso la partecipazione alle elezioni? ha senso la presenza nei vari istituti rappresentativi dell’attuale sistema democratico?

C. Rispondo subito di sì a tutte e tre le domande. Il dualismo tra istituti di democrazia diretta ed attuale democrazia rappresentativa, lo ripeto, non può essere di separazione. Non c'è un altrove separato dalla concreta società dentro la quale siamo inseriti. La pratica della democrazia diretta è una progressione di marcia: per crescere ha bisogno di incidere, di strappare conquiste, di costringere la democrazia rappresentativa a concessioni e capitolazioni. La presenza di sue propaggini all'interno dei concreti luoghi della democrazia rappresentativa, dai consigli comunali al parlamento, e anche all'interno, laddove è possibile e utile, delle loro emanazioni di governo, può essere senz'altro d'aiuto. Così come lo è la partecipazione alle elezioni, che nell'attuale condizione sono largamente un rito di coesione ed irregimentazione, ma che pure possono essere vissute come momento di presenza e forza dell'universo alternativo.

R. Attenzione però, la pratica elettorale e anche la pratica istituzionale, non sono solo uno strumento. Sono esse stesse una forza costruttiva, definiscono fisionomie, culture, modi di essere. Con l'elezione si diventa facilmente elettoralisti, e nelle istituzioni ci si trasforma troppo facilmente in istituzionalisti.

C. Quello che dici è vero. E’ la pratica sociale delle persone che determina la loro coscienza, e non viceversa. Ma io dico che la gran parte della nostra pratica deve svolgersi esattamente “fuori”. Se non si costruiscono i percorsi della democrazia diretta, è evidente che la partecipazione alla democrazia rappresentativa ci modella nel senso di quest'ultima, e dunque dentro le logiche dell'alternanza e non dell'alternativa. Chiamarsi fuori è, come ho già detto, il primo movimento. Il secondo è di premere sull'insieme della società, ivi compreso il suo assetto rappresentativo. C'è un elemento prioritario e un andamento derivato. Ma se non c'è la priorità della democrazia diretta, diventa inevitabile che, pur con tutte le migliori intenzioni, la partecipazione alla democrazia rappresentativa snaturi la nostra stessa volontà di alternativa.

R. Ma dove si situa specificamente questa nostra volontà di alternativa? Mica ci ripresenterai il discorso del partito come luogo mitico del nostro essere diversi?

C. No. Il partito va inteso alla stregua di un semplice strumento pratico. Nulla di più. Il partito che propongo è un partito con la p minuscola. Tanto più che proprio la forma-partito è entrata in crisi, e i partiti comunisti hanno avuto storicamente una parabola di evidente snaturamento ed isterilimento. E l’hanno avuta proprio in quanto partiti, in quanto processo storico definito, non per responsabilità di gruppi dirigenti che avrebbero, per così dire, “tradito”.

F. E’ questo che intendevi come terzo lascito del Novecento? Il terzo problema che il conto della storia ci consegna?

C. Sì. Accanto alla dislocazione del valore nell’insieme della società e alla politica democratica come governo della complessità, la chiusura del Novecento ha portato con sé anche la fine del partito come luogo onnicomprensivo dell'alternativa di società. Si sono consumati entrambi i modi di concepire la pratica dei comunisti. Da un lato, ha fallito il partito comunista di massa, che manteneva nel proprio programma il socialismo e la trasformazione della società, e però concretamente si metteva in gioco dentro le dinamiche politiche date. La sua corsa è proseguita fino all'assunzione piena delle forme della democrazia rappresentativa per come esse stesse si venivano modificando, nel senso del governo della complessità. La cosiddetta mutazione genetica del vecchio PCI in PDS, DS ed oggi Partito democratico, non è un incidente della storia ma l’esito, per certi versi inevitabile, di quel mettersi in gioco sul piano della politica, con la conseguente scissione concettuale e pratica tra programma massimo e programma minimo, tra strategia e tattica, tra idealità e politica.

F. Ma è fallito anche l'altro modo di concepire l'identità comunista, come avanguardia che si preserva e si prepara ad intercettare le dinamiche della società dentro gli scenari di crisi. Bordighisti e trotzchisti di vario segno, così attenti a non esser coinvolti più di tanto nelle dinamiche della politica come governo, sono stati lasciati indietro dalle stesse dinamiche di conflitto della società, sono rimasti gruppi sterili, in grado di essere anche presenti nel conflitto segmento per segmento, ma senza alcuna capacità di riannodare le fila e di spingere per una alternativa complessiva.

C. Sì, è così. I comunisti “togliattiani” sono stati come i panni logorati dal troppo uso, che alla fine non si riconoscono più neppure nel colore e nel disegno. Gli altri sono stati come i panni riposti nei cassetti che, a poco a poco, ingialliscono, si tarlano, perdono di consistenza e diventano sostanzialmente inservibili.

R. Ma allora il comunismo come pratica organizzata, come identità militante, come partecipazione culturale ed emotiva è ormai una cosa del passato?

C. Le cose del passato sono del passato. Oggi occorre essere comunisti in modo nuovo e in nuove forme organizzate. E occorre esserlo anzitutto sul piano delle relazioni sociali, e solo derivatamente sul piano delle relazioni politiche. Ed occorre esserlo soprattutto agendo per favorire dinamiche di autorganizzazione sociale, di democrazia diretta.

R. Ma allora bisogna cambiare tutto anche rispetto al nostro più recente passato, anche rispetto a come è stata negli ultimi quindici anni Rifondazione comunista.

C. Sì. Questa comunità di compagni che ancora è Rifondazione comunista deve produrre un nuovo inizio, una nuova pratica, portando con sé tutto il meglio di quello che ha prodotto finora in termini di innovazione culturale.

F. E vi pare che si stia andando in questa direzione ora? dopo la batosta elettorale?

C. Non so. Domani c'è il Comitato politico nazionale di Rifondazione. Vedremo cosa ne esce.

F. Da come si preannuncia ci sarà scontro duro.

C. Non è lo scontro che ci deve preoccupare, ma il punto in cui siamo. Noi siamo obbligati, volenti o nolenti, ad un nuovo inizio.

R. Sì, ma con quali caratteristiche?

C. Di questo potremo anche parlare un'altra volta.

R. Va bene, chiudiamola qui per il momento. E diamoci appuntamento a dopo il comitato politico.

F. D'accordo.


Napoli, 18 aprile 2008 RINO MALINCONICO

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