sabato 10 maggio 2008

Dialoghi sulla sconfitta / 3

DIALOGHI ALL'INDOMANI DI UNA SCONFITTA di Rino Malinconico

parte terza: UNA NUOVA POLITICA

ROSA Beh, non è mica andata tanto bene.

CARLO Dici del Comitato politico di Rifondazione?

FEDERICO Secondo me qualcosa di positivo comunque è successo.

R. E’ successo solo che c’è stata una spaccatura, uno scontro tra gruppi dirigenti. Invece di parlare delle cose serie di cui bisogna discutere, da una parte c’è chi invoca l’auto-assoluzione, con la logica del tutti colpevoli, nessun colpevole; e dall’altro c’è chi vuole a tutti i costi un capro espiatorio.

C. Sì, ho letto anch’io che la discussione è stata tesa e lacerante. Ma non ne farei un dramma. La confusione, dopo un disastro di tal fatta, bisogna metterla in conto.

F. Però, scusate, qualcosa pure è uscito con chiarezza.

R. Sì? E cosa sarebbe uscito?

F. Intanto che Rifondazione Comunista c’è ancora, e questo, dopo un disastro così, non era mica scontato. E poi che farà il suo congresso per discutere di ciò che è stato e di ciò che deve essere. In secondo luogo è stato ribadito che bisogna darsi la prospettiva di un qualcosa di più vasto, perché Rifondazione da sola comunque non è sufficiente. E in ultimo è stato sottolineato che occorre partire dall’opposizione sociale. A me pare che questi punti emergano nitidamente nella mozione di maggioranza, ma che siano presenti, sia pure in modo non chiarissimo, anche nella seconda mozione. Per certi versi sono presenti, almeno in parte, anche nelle altre due mozioni presentate.

R. Ma se dicono le stesse cose, converrete entrambi con me che è davvero poco comprensibile questa spaccatura.

C. Io penso che dobbiamo fare un lavoro intelligente sulle parole.

R. Che vuoi dire?

C. Tu hai usato già due volte il termine “spaccatura”. Non siamo mica a questo. Almeno per quello che ho capito. Siamo ad una diversità di posizioni.

R. Diversità su cosa?

C. Probabilmente è vero che traspare poco dai documenti. Ma i documenti stessi sono arrivati dopo una settimana di soffertissima discussione. Se c’è stato un condizionamento reciproco delle posizioni, non deve essere visto come un male, ma come un bene.

R. Alla fine però i documenti, nella ex maggioranza congressuale, sono stati due e non uno.

F. Forse questo si spiega col fatto che non tutto è stato limpido in campagna elettorale e nella spinta ad andare subito “oltre Rifondazione”. Forse ci sono anche cose non dette o dette a metà.

C. Se la poni così sbagli, perché non è questione di reticenza. Nessuna delle due posizioni principali mi sembra reticente. La diversità sta invece in una esplicita accentuazione in un senso o nell’altro. Dire che si parte da Rifondazione Comunista per dar vita al processo costituente della sinistra non è la stessa cosa di dire che si parte da Rifondazione comunista per svilupparne il radicamento sociale, e sulla base di questo dare nuovo impulso al processo di ricostruzione della sinistra.

R. Anche poste così, non mi pare che siamo a posizioni realmente contrapposte l’una all’altra.

C. Assolutamente no. Ma una differenza c’è sia nella sequenza cronologica che nell’ordine delle priorità. E ciò produce effetti anche pratici.

F. Ma tu che pensi nel merito?

C. Penso che il nodo di fondo sia venuto solo molto parzialmente alla luce.

F. E cioè?

C. Cioè che si è chiusa una fase in maniera irrimediabile. Una fase che io chiamerei, oggi, col senno di poi, “della mimesi”. E parlo di una fase lunga che copre tutti i diciotto anni di vita di Rifondazione…

R. E cosa sarebbe questa “mimesi”?

C. Come abbiamo proceduto noi in questi anni? Quale è stato l’argomento di fondo che ha retto la nostra iniziativa politica, la nostra elaborazione culturale, la nostra definizione di linea politica?

F. Quanto a questo, ci siamo detti che bisognava ripigliare il filo della lotta di classe e dell’alternativa di società.

C. Va bene. Ma questo filo andava ripigliato in quali condizioni? Come abbiamo pensato il contesto entro il quale ci si trovava ad agire?

F. Non capisco bene a cosa tu voglia alludere.

C. Alludo al fatto che noi abbiamo mimato, in tutti questi diciotto anni, il partito comunista di massa. Non lo eravamo, ma ci comportavamo come se potevamo esserlo da un momento all’altro.

F. Per dei comunisti è ben naturale pensare di poter intercettare le speranze e la voglia di cambiamento degli strati popolari.

C. Sì, ma noi abbiamo ragionato sul presupposto che avevamo alle nostre spalle una eredità formidabile, e cioè il grande radicamento sociale del Partito comunista italiano; e semplicemente per un inganno, perché qualcuno aveva alterato il “testamento”, non riuscivamo ancora ad entrarne liberamente in possesso. Ma il “nostro” popolo –fate caso all’aggettivo possessivo, a quel “nostro”- era comunque là, sempre pronto, e coincideva con l’insieme delle classi popolari. Abbiamo pensato questo, che avevamo già una base naturale di massa, e ciò solo perché ci sentivamo soggettivamente gli eredi di un passato. E per di più lo abbiamo pensato in un’epoca nella quale non solo le soggettività politiche venivano messe a torsione, ma anche le soggettività sociali. Non solo quel popolo non era “nostro”, ma era anche scomposto come tale; e anche ora deve ancora ritrovarsi come soggettività.

F. Su questo sono molto d’accordo. Abbiamo fatto politica come se dietro di noi ci fossero davvero milioni e milioni di lavoratori, come se avessimo un consenso ampio, solidificato e sperimentato, come se il problema fosse solo di utilizzare al meglio la nostra capacità di egemonia, e farla pesare poi in tutti i passaggi. Abbiamo sottovalutato l’importanza fondativa dell’essere fisicamente interni all’esperienza concreta di coloro che intendevamo rappresentare.

C. Proprio così. Abbiamo vissuto la grande illusione di essere storicamente i legittimi eredi della rappresentanza popolare, della rappresentanza di classe; e che dovevamo solo far valere questi nostri titoli di eredi e sbugiardare il PDS-DS, oggi Partito democratico, il quale con l’imbroglio e i capricci del caso si sarebbe sostituito a noi nell’eredità. Ci sfuggiva il fatto che gli unici, possibili eredi di un patrimonio già in sé progressivamente degenerato erano esattamente gli altri; e che la chiusura del Novecento non portava, non poteva portare alcuna vera eredità in termini di consenso, almeno a coloro che volevano continuare a contrastare il capitalismo. Il “nostro” popolo, insomma, dovevamo addirittura costruirlo, non semplicemente guidarlo. E la politica che dovevamo fare non poteva essere semplicemente quella di “rappresentare”, sul piano della dinamiche istituzionali, le aspettative e le istanze della parte più debole della società, istanze, peraltro, erroneamente immaginate come già mature e condivise; doveva essere, invece, una politica “della costruzione”, proprio della costruzione, giorno per giorno e all’interno del corpo sociale, di concretissime spinte di emancipazione e liberazione, un qualcosa di molto diverso dalla politica “della rappresentazione”...

R. Io potrei anche essere d'accordo col vostro discorso, col fatto che Rifondazione abbia vissuto fin dall’inizio in un grande equivoco, che ha preso un abbaglio storico; ma se c'è stata una svista così gigantesca, questo ci ha riguardati tutti. Non è che si può distinguere tra chi ha fantasticato di più e chi di meno.

C. E’ vero, l'abbaglio ha riguardato tutti, ma proprio tutti. Perché tutti abbiamo creduto che comunisti e popolo costituissero un binomio indissolubile, per l’ieri, per l’oggi e per il domani. E non si è capito che non soltanto i comunisti e il popolo, dopo il Novecento, dovevano, ciascuno di essi, ri/pensarsi, ri/definirsi e ri/costituirsi, ma che anche il loro legame andava continuamente ri/guadagnato, postazione per postazione.

F. E vero, un tale fraintendimento ha davvero riguardato tutti noi, tuttavia...

R. Tuttavia?

F. Non sono sicuro che tutti, ora, stiano capendo che c'è stato un errore di tal fatta. Anzi, per dirla chiara, penso che questa percezione sia ancora troppo poco presente all'interno del corpo del partito. A partire dai dirigenti, che questo partito l’hanno pur diretto…

R. Fammi capire a chi ti riferisci.

F. Per esempio, quelli che pensano che il nostro problema consista nell'individuazione di un leader - un leader del partito o della sinistra, la cosa non cambia - mostrano di essere ancora completamente dentro la logica che prima Carlo indicava, quella della politica come rappresentazione. Era sbagliato prima, è sbagliato ancora di più adesso, quando l'inconsistenza nostra è venuta così drammaticamente alla luce. Peraltro, questa faccenda del leader è davvero irritante. Mi pare di assistere alle camarille delle case regnanti dell'Ottocento, che perdevano il regno, erano costrette all'esilio, ma si applicavano lo stesso, e molto seriamente, ai meccanismi della successione. La successione del niente!

R. Ma la questione del leader è proprio l'ultimo dei nostri problemi…

F. Dici bene, è proprio l'ultimo dei nostri problemi!

R. Tuttavia, pur essendo questo l'ultimo dei problemi, dovremo comunque individuare un gruppo dirigente per la nuova fase. Magari senza ricorrere alla conta…

C. Questo è giusto, ma il punto vero è quale processo concreto dovrà guidare questo gruppo dirigente, al di là della sua composizione. Io ritengo che farebbe bene ad assumere nettamente il tema della costruzione e bandire quanto più possibile le logiche della rappresentazione, cioè la modalità di un partito che esiste solo perché ha dei gruppi parlamentari, perché ha consiglieri e assessori. La logica della rappresentazione è la modalità di un partito che riesce ad essere reale soltanto quando c'è qualcuno che ne parla per televisione, o parla a suo nome in un talk show. Ma noi non possiamo ridurci ad essere qualcosa che dallo schermo si rivolge agli ascoltatori. Siamo chiamati a vivere una reale internità con l'esperienza concreta degli sfruttati. Tu, Federico, opportunamente la definivi come “internità fisica”. Essa è tanto più necessaria perché questa società ha superato storicamente l’epoca della “penuria” naturale dei beni che servono alla vita, e nondimeno resta profondamente ingiusta e degradante; ma questa sua contraddizione terribile la si capisce veramente solo se avvengono concretissimi percorsi di differenziazione, concrete esperienze di contrasto, concreti passaggi di svolta; e soltanto se queste pratiche vengono svolte da un insieme vero di persone, partendo da condizioni comuni di lavoro e di vita, e procedendo come una pluralità di individui che arrivano a riconoscersi, proprio nell’attività, come una soggettività collettiva…

R. Insomma, occorre più movimento.

C. Anche, ma soprattutto più costruzione della soggettività. Le dinamiche di movimento contribuiscono a determinare gli elementi di soggettività, ma non li esauriscono. Occorrono molte cose insieme: ci vuole movimento, ci vuole discussione, ci vuole condivisione, ci vuole compartecipazione...

R. In concreto, ci vuole una bella traversata del deserto.

F. C'è un aspetto, però, di questo ragionamento che dovrebbe essere chiarito meglio, e cioè che quello che tu chiami “costruzione” non può certo significare il ritrarsi dai meccanismi del quadro politico-istituzionale. Noi abbiamo perso sicuramente perché è venuta alla luce l'inutilità sociale di Rifondazione e dell’attuale sinistra antagonista, ma anche perché è risultata chiara la sua inutilità politica…

C. Vedo che tu continui a porre uno stacco molto netto tra il momento sociale e il momento politico. E però, per chi come noi non assume la società per come è data, ma si propone esplicitamente di cambiarla, la separazione tra l’elemento sociale e l’elemento politico non dovrebbe essere così forte. La politica cui noi miriamo è esattamente la dinamica sociale che diviene “condizionamento e proposta”, che diviene “politica” senza intermediari. In altri termini: la pratica della trasformazione ha come suo autentico presupposto metodologico il fatto che la dialettica sociale irrompa quanto più direttamente possibile nel quadro politico, senza il protagonismo della mediazione istituzionale.

F. E’ un ragionamento complicato quello che proponi.

C. Sì, lo è. Quelli che si propongono il governo della società, anche un buon governo, onesto, sollecito, attento, scrupoloso, possono permettersi di vedere il corpo sociale da lontano, giusto nelle campagne elettorali. Possono soprattutto permettersi di vederlo come un tutto indistinto, come un insieme di singoli, con singoli, individuali problemi. E quanto alla società possono permettersi di guardarla come un intreccio di problematiche con vari gradienti di difficoltà, che richiedono soluzioni efficaci. Possono concepire perciò la politica come semplice capacità di dare risposta alle domande che via via sorgono nei processi di articolazione e di riarticolazione del corpo sociale. Noi però non possiamo permetterci e un approccio così semplice e lineare alla politica. Proprio perché vogliamo trasformare la società, ed anzi partiamo da una critica di fondo dei suoi meccanismi costitutivi, noi abbiamo bisogno del protagonismo della società medesima.

R. Questo è giusto, e penso che lo condividano tutti i compagni e tutte le compagne. Ma la questione è come si determina, come si favorisce il protagonismo sociale.

F. Certamente non lo si favorisce restando chiusi nei palazzi istituzionali…

R. Se questo era il problema, ora nei palazzi non ci siamo nemmeno più.

F. Sì, il dato elettorale ci ha messo fuori dai palazzi romani, ma sparsi per l’Italia ci sono tanti altri palazzi e palazzine. Il problema è uscir fuori, è stare tra le persone in carne ed ossa.

R. Ma scusa, non eri tu che prima ti preoccupavi di un partito che si sposta tutto sulla società e lascia il terreno della politica?

F. Che c’entra? La politica che intendo io è sì politica, ma non prevede affatto la centralità dei palazzi; e neppure delle palazzine. E se mi preoccupa un partito che faccia solo esperienza sociale, mi preoccupa ancora di più un partito che invece di porsi il problema dell’iniziativa sociale, si ponga anzitutto il problema di come mantenere le sue postazioni, per esempio negli enti territoriali. Insomma, un partito, che invece di andare dai palazzi alla società scegliesse di andare dai palazzi alle palazzine degli enti locali, dimostrerebbe di non aver capito affatto le priorità del momento.

R. Che proponi? Di uscire anche da tutte le giunte?

F. Forse questo potrebbe essere utile. Tu, Carlo, che pensi?

C. Che una tale scelta non dovrebbe essere esclusa, ma che è assolutamente prematuro assumerla come regola generale. Alcuni passaggi debbono ancora definirsi, anche nello stesso quadro della politica-politica: per esempio, la questione dell’autosufficienza del Partito democratico. Veltroni l’ha fatta valere sul piano della prospettiva di governo nazionale. Dopo la sconfitta, che è stata molto dura anche per loro, questa posizione sarà mantenuta? E si allargherà anche agli enti locali, come scelta strategica? E’ difficile dirlo adesso. E simmetricamente, è difficile prevedere già ora quale effettiva fisionomia assumeranno le diverse pratiche di opposizione al nuovo governo Berlusconi, la nostra e quella del PD. Per il momento, io farei valere il principio di guardare situazione per situazione. Laddove la presenza in una giunta fosse realmente funzionale ad una pratica sociale di rivendicazioni e mantenesse aperto il quadro istituzionale per il protagonismo diretto delle persone, allora può valer la pena di disporre anche di un tale strumento. La regola, almeno per adesso, potrebbe essere perciò quella di provare a starci, se ci sono condizioni di partenza accettabili; ma di starci, per così dire, con la valigia sempre pronta. In ogni caso, giunta o non giunta, la questione fondamentale è quella di lavorare nella società; e di costruire, in questo lavoro, un profilo chiaramente autonomo e alternativo del nostro partito.

F. Torni sempre su questo punto: lavoro di costruzione nella società. Ma non si rischia così una politica per frammenti, per singole vertenze, per movimenti di lotta, per dinamiche tutte informali? La politica, anche la politica nostra che vuole rivoluzionare la società, non dovrebbe anche essere progetto complessivo? E il nostro progetto complessivo non è forse quello di costruire, per usare la metafora pasoliniana, un “paese nel paese”, una comunità ampia di territori, classi sociali, associazioni, ed anche istituzioni, dove si difendono i diritti e se ne producono di nuovi?

C. E’ giusto quello che dici, ma a una condizione: che si sappia bene qual è l’elemento determinante del processo. Quel paese nel paese la nostra politica può perseguirlo in due modi: o per assemblaggio, mettendo insieme quello che c’è di più avanzato –partiti, sindacati, associazioni, movimenti, ecc.; oppure può farlo modificando e modificandosi incessantemente nel cammino, ponendosi come strumento utile a suscitare l’elemento decisivo della partecipazione e dell’autorganizzazione. I fatti risolutivi per noi non sono le leggi, i decreti o le ordinanze che vengono prodotte, ma i conflitti che si determinano. Le leggi e tutti i provvedimenti che si riescono ad ottenere in sede istituzionale valgono esattamente perché esprimono il livello dato dei processi di protagonismo e di conflitto.

R. Il nostro obiettivo, insomma, non è una società più civile e più ordinata, ma un’altra società, con altri rapporti economici, con altre relazioni sociali.

C. Sì. Per un politico culturalmente interno agli attuali assetti sociali, quello che una volta non avremmo avuto difficoltà a chiamare “politico borghese”…

F. Potremmo anche continuare a chiamarlo così…

C. Potremmo, solo che c’è il piccolo particolare che dovremmo anche preliminarmente ricostruire una teoria delle classi sociali, che faccia pienamente i conti con quella che io chiamo “totalizzazione del rapporto di capitale”, e cioè con la concreta realtà economica, sociale e culturale del nostro tempo.

R. Va bene, ma indipendentemente da come lo si qualifichi, si capisce bene che quel tuo politico si pone, nel migliore dei casi, solo il problema di governare la complessità, di garantire il funzionamento della società, incoraggiando dove c'è da incoraggiare, mettendo dove c'è da mettere, eliminando dove c'è da eliminare. Ma per noi? Come deve essere la politica per noi?

C. La politica che si batte per un altro mondo possibile deve badare sempre, come suo sguardo e come sua preoccupazione costanti, alle linee dello sfruttamento e dell’oppressione, deve sempre partire dalla pressione drammatica del sistema capitalistico sul lavoro, e soprattutto sulla vita della quasi totalità delle persone. Deve badare allo sfruttamento e all’oppressione per come sono e per come si riproducono, non solo nella pratica concreta, ma nella stessa testa degli individui. Deve essere attenta, insomma, a costruire una critica costante della società stessa, e in questa critica della società deve riporre anche una specifica critica della politica, anche del modo di fare politica.

R. Ma in questo quadro ha senso un programma complessivo?

C. Certo che sì. Ma non vorrai che affrontiamo ora anche la questione del programma.

R. No. Ne avremo di tempo per discutere.

F. Discutere ed agire.

C. Certo, discutere ed agire. Ma, almeno la discussione, la riprendiamo la prossima settimana.

Napoli, 22 aprile 2007

RINO MALINCONICO

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