lunedì 12 maggio 2008

Dialoghi sulla sconfitta / 4

DIALOGHI ALL'INDOMANI DI UNA SCONFITTA di Rino Malinconico

parte quarta: LA FORZA DELLE DESTRE


FEDERICO Peggio di così non poteva andare. Ora anche in Campidoglio tornano le camice nere.

ROSA Già, questa di Roma è stata una brutta botta.

CARLO Ad esser sinceri, non credo che cambi molto. Il disastro era già tutto nei risultati del 13 e 14 di aprile.

F. Beh, però Roma ha messo fine ad ogni residua illusione di semplice sconfitta elettorale. C’è uno spostamento a destra del paese che indica una tendenza di lungo periodo.

C. Il lungo periodo, per la verità, andrebbe visto anche con riguardo agli anni precedenti.

R. E’ vero. Le destre sono maggioranza elettorale in Italia da molti anni, si può dire dalla fine della prima Repubblica.

C. Proprio così: vinsero nettamente nel 1994 e poi nel ‘96 persero perché non riuscirono a coalizzarsi. Hanno vinto ancora nettamente nel 2001 e due anni fa sono andate sotto per una inezia alla Camera, giusto per il voto degli italiani all’estero. E comunque ebbero addirittura alcune centinaia di migliaia di voti in più al Senato. A penalizzarli fu la loro stessa legge elettorale.

R. Ma a ben vedere è certamente strano questo prevalere costante delle destre, perché l’ultimo quindicennio è stato comunque segnato dai movimenti di lotta, dal movimento dei movimenti, dai Social-forum anche in Italia; e poi dalle lotte in difesa dello Statuto dei lavoratori. In piazza sono scesi milioni di persone…

F. Evidentemente le piazze piene non comportano di per sé che anche le urne diventino piene. D’altra parte, recentemente, solo il 20 ottobre dell’anno scorso, la sinistra alternativa ha portato in piazza un milione di persone. Questo è avvenuto appena sette mesi fa. E poi, guarda che disastro è arrivato in cabina elettorale… Perché scuoti la testa, Carlo?

C. Penso all’enorme lavoro che dovremo fare su noi stessi per essere all’altezza della nuova situazione. Davvero un lavoro enorme!

F. Sì, ma perché hai scosso la testa quando ho ricordato il 20 ottobre? Dicevo fesserie?

C. No, non mi riferivo a quanto dicevi sulla discrepanza tra piazze ed urne elettorali. E’ un ragionamento che contiene pezzi di verità, anche se andrebbe tenuto ben presente che, per un partito di alternativa, è ancora più difficile, molto più difficile, che le urne possano riempirsi se poi le piazze sono vuote. Ma, al di là di questo, noi dovremmo davvero recuperare, per prima cosa, una qualità che si è troppo rarefatta di questi tempi.

R. Di questi tempi si sono rarefatte quasi tutte le qualità.

C. Sì, ma questa si è persa ancora di più. Intendo: la sobrietà, il senso della misura, l’attitudine alla verità…

F. E che c’entra questo col 20 ottobre?

C. C’entra, eccome! C’entra per il numero che si dà dei partecipanti. Continuiamo a dire “un milione di persone”, come se fosse un dato pacifico, acquisito, incontrovertibile.

F. Ma… è il numero che fu dato anche dal palco.

C. Appunto. Al di là che dal palco dissero comunque settecentomila, la verità è che non eravamo né un milione, né settecentomila. Semplicemente non potevamo esserlo. Basterebbe andare a vedere l’elenco dei pullman e dei treni speciali. Solo per mettere centomila persone assieme occorrono duemila pullman completamente strapieni. E non erano mica stati organizzati in questo numero.

F. Ma c’erano anche i treni speciali, un traghetto dalla Sardegna.

C. Certo. Ma un treno speciale porta un massimo di milleduecento, millecinquecento persone. Quanti treni ci sono stati? Dieci, venti, trenta? Facciamo anche cinquantamila persone, compreso il traghetto dalla Sardegna, ed è evidente che stiamo parlando davvero per eccesso. Per il resto, è certo che molti saranno venuti con le proprie macchine. Ma, ad una media di quattro per auto, ce ne vogliono non meno di venticinquemila per arrivare a centomila unità. Pensiamo davvero che si siano mosse tante automobili?

F. Che concludi?

C. Che, facendo stime larghe, e contando una partecipazione grandissima di Roma e provincia, nell’ordine almeno delle cinquantamila unità, a sfilare il 20 ottobre non potevano essere più di duecentocinquanta, trecentomila persone. Il fatto che una tale cifra, che pure è in sé straordinaria, venga tranquillamente moltiplicata per tre o per quattro, e che poi tutti se ne convincano, penso che costituisca un problema politico serissimo perché produce una errata percezione della nostra forza e dei rapporti di forza nella società.

R. D’accordo, ma il punto non è certo stabilire adesso quanti eravamo. D’altronde, capisco bene ciò che vuoi sottolineare: che anche noi ci comportiamo in base al principio che la verità è ciò che appare e non ciò che è.

C. Di più: non ciò che appare, ma ciò che noi stessi facciamo apparire. Quello che ci piacerebbe che fosse, diventa troppo rapidamente ciò che è. Si tratta di una corposissima omologazione alla società dell’informazione e dello spettacolo. E sulla base di questa modalità “spettacolare” di rapporto col mondo, noi costruiamo analisi, fissiamo traguardi, ragioniamo sui rapporti di forza.

F. Guarda, però, che non lo facciamo solo noi. Lo fanno anche gli altri…

C. Appunto. Noi non possiamo essere come gli altri. Gli altri, i partiti che mirano a governare anziché a trasformare, mobilitano la società solamente perché essa ascolti, perché dia, con la sua presenza fisica, una platea di ascoltatori ad una linea, ad una proposta, ad una logica. Noi, al contrario, è proprio assieme alla società che dobbiamo costruire. E una esatta percezione dei numeri è parte integrante del quadro di esatte percezioni che dovremmo avere…

F. Insomma, anche dal versante dei numeri, ne viene fuori che abbiamo lungamente vissuto in un abbaglio, come dicevi l’altra volta… Comunque penso che tu abbia proprio ragione. Anche la vertenza a difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con la grande manifestazione a Roma indetta dalla CGIL: mica erano davvero tre milioni, come pure fu detto, e ancora tutti ricordano! Avrebbero dovuto essere almeno settantamila pullmann e le autostrade sarebbero rimaste intasate per ore…

R. Ma perché è scattata questa corsa alla moltiplicazione, ai numeri smodati? Anche una manifestazione di centinaia di migliaia, che so, di cinque o seicentomila persone resta enorme! Fa normalmente impressione…

C. Non so perché sia successo. Probabilmente c’entra quella che Deleuze chiama “la società dello spettacolo” e la nostra subordinazione culturale ad essa. So solo che così non può continuare, e che dobbiamo recuperare uno sguardo veritiero sui rapporti di forza reali, che non sono affatto, e non lo sono da lungo tempo, per come ce li siamo figurati. Dobbiamo ripartire da pensieri e da linguaggi più sobri. E dobbiamo recuperare una passione, che abbiamo purtroppo smarrita: quella per la verità.

F. Ma al di là del fatto che non abbiamo capito, e che anzi abbiamo sottovalutato, in tutti questi anni, la forza della destra nella società, resta il fatto che bisogna comunque spiegare perché questa forza sia tanto cresciuta fino ad imporsi…

C. Non c'è una sola causa. C’entra, per le generazioni mature, la paura di non farcela più, c’entra l’incertezza del futuro per le fasce giovanili, c’entra la virulenza di una propaganda capace di usare al meglio tutte le nuove frontiere della comunicazione. E c’entrano anche gli errori delle forze centriste e delle forze di sinistra. C’entra molto pure la delusione specificamente operaia, e cioè di una classe sociale che più di tutte ha attraversato i processi di scomposizione di cui abbiamo parlato altre volte e che si è sentita “tradita”, in parte a ragione e in parte a torto. Ma soprattutto c’entra, a mio avviso, una spinta storica di fondo, che è tipica del capitalismo dell'età della totalizzazione, in direzione di una società neo-autoritaria e neo-totalitaria. Proprio perché la valorizzazione è legata alla mobilitazione produttiva del corpo sociale, alla cointeragenza dell'insieme, avviene che la tendenza alla irregimentazione del corpo sociale nasca pressoché spontaneamente da quelle stesse dinamiche di sviluppo del capitalismo; e parallelamente si determina una realtà di rinnovata competizione, all’interno dello stesso quadro capitalistico, tra nazioni e gruppi di nazioni tra loro.

R. Non mi è chiaro questo secondo aspetto. Il punto della tendenza alla irregimentazione interna lo capisco: è la totalizzazione stessa che spinge in quella direzione perché ha bisogno della mobilitazione produttiva del corpo sociale e deve far sì che tutti, anche quando non lavorano, agiscano come corpo unico, si sentano un insieme, quello che tu ci hai indicato come “individuo produttivo sociale”. Ma non capisco perché poi questa irregimentazione interna dovrebbe divenire aggressiva sul piano delle relazioni esterne. Se il capitalismo è totalizzante, perché dovrebbero aumentare i conflitti tra le nazioni? Cioè, i conflitti all’interno del circuito capitalistico avanzato? Anzi, il capitalismo che tu descrivi dovrebbe essere immaginato proprio senza confini, come un unicum di funzionamento sociale, il cui solo problema dovrebbe essere quello di assoggettare continuamente le persone, il loro lavoro, i loro spazi di vita...

C. Stai attenta che se lo delinei come un “unicum” disincarnato dal tempo e dallo spazio, questo capitalismo diventa semplicemente una modalità di funzionamento e non una forza storica reale. Ad agire non è certo la nuova forma del capitalismo, alla stregua di una pura “idea in sé”, quanto piuttosto il concreto percorso storico del costituirsi del capitalismo in questa sua nuova forma. E ciò significa che questo capitalismo resta sempre plurale: nella storia si muovono i capitalismi, vale a dire specifici rapporti sociali costruiti in determinati spazi e in determinati tempi. La totalizzazione è una tendenza planetaria nel senso che ovunque, situazione per situazione, il rapporto di capitale tende a funzionare e a svilupparsi alla medesima maniera. Tuttavia, gli ambiti spaziali entro cui esso si articola, entro cui realmente si costruisce come insieme integrato di lavoro e vita sociale, come un vero e proprio “individuo produttivo sociale”, restano largamente quelli delle nazioni, ed anzi tendono addirittura a precisarsi ulteriormente, all’interno di esse, in entità regionali. Parallelamente si costruiscono macro-aree a scala continentale e sub-continentale, che configurano un sistema di alleanze di medio e breve periodo tra diverse realtà della totalizzazione, più affini tra loro o semplicemente accomunate da ragioni di utilità reciproca. Ma si tratta di alleanze contro altre alleanze…

R. Ma se l’interesse del capitalismo è a valorizzarsi, e questo suo valorizzarsi deriva ora dalla “potenza degli agenti” messi in moto nel tempo di lavoro, più ancora che dal tempo di lavoro stesso, com’è che poi restano i vecchi elementi della concorrenza tra paesi, compresa la loro possibile evoluzione in scontri commerciali o addirittura in guerre?

C. Non si tratta del vecchio meccanismo della concorrenza commerciale, ma di una concorrenza più aspra e impersonale tra le diverse capacità produttive. Negli scambi internazionali di merci e di tecnologie oggi si mettono realmente a confronto non le merci, i manufatti o le materie prime, ma esattamente le capacità produttive delle singole aree, delle singole nazioni, dei vari gruppi di nazioni.

F. Facci capire bene.

C. Nel commercio mondiale avviene, in concreto, che il paese con la capacità produttiva più accentuata, proprio perché è capace di produrre in minor tempo, arrivi ad incamerare più tempi di lavoro di quanti ne ceda, e ciò esattamente attraverso lo scambio di merci equivalenti quanto al semplice valore di mercato. Cedendo un prodotto che rappresenta un infinitesimo della sua capacità produttiva totale in cambio di un qualsiasi prodotto straniero, che però rappresenta, per l’altro paese, un valore infinitesimo maggiore, l’economia più avanzata aggiunge ai propri tempi di lavoro anche quelli che recupera nello scambio, concentrando in sé anche quote-parti della potenza produttiva altrui. Ciò vale finanche se si scambiano i medesimi prodotti, perché quello che conta non sono gli oggetti in sé quanto la composizione di valore che essi contengono. Formalmente si scambiano merci a valori di mercato equivalenti, ma in realtà si scambiano le rispettive potenze produttive, nel senso che la potenza maggiore cede una quota percentuale di sé comunque minore della quota percentuale di capacità produttiva ceduta dall’altro contraente. Si prendono, per così dire, i minuti di lavoro degli altri e si danno in cambio solo i secondi del proprio lavoro complessivo, di modo che il paese più ricco incrementi ulteriormente la propria ricchezza e realizzi più agevolmente la sua intrinseca finalità di crescere, cioè di costruire una capacità produttiva ancora più grande.

R. Vediamo se ho capito. Tu dici che un determinato capitalismo non sfrutta solo i “propri” lavoratori, e già qui si intendono tutti, ma proprio tutti i lavoratori che con la loro attività e anche, addirittura, col loro stesso vivere, cooperano a determinare la potenza dell’insieme; ma esso sfrutta anche, almeno in parte, i lavoratori dei paesi più arretrati con i quali intrattiene rapporti commerciali…

C. Sì. I paesi a capitalismo più avanzato sottraggono a quelli meno sviluppati tempi di lavoro e concrete potenzialità produttive. L’esempio più evidente è dato dalle grandi migrazioni del nostro tempo: gli immigrati che arrivano da noi sono la forma visibile che assume il travaso del valore-lavoro dai molti sud ai diversi nord del mondo. Ma, a rigore, c’è travaso in ogni scambio, anche nel commercio che avviene tra economie ricche. C’è sempre uno scambio diseguale di valore-lavoro più o meno accentuato, e ciò, oltre a produrre, ad un determinato livello, le drammatiche fratture planetarie che abbiamo sotto gli occhi, alimenta dappertutto i fattori di concorrenza e di contrasto. In sostanza il rapporto di capitale nell’età della totalizzazione tende a recuperare tutto ciò che si muove entro la sua orbita e lo riplasma come potenza produttiva. In tal modo lo fa agire disciplinatamente nel meccanismo di un processo di valorizzazione che sempre avviene a scala generale, sicché alla fine di ogni ciclo economico, cioè di un periodo più o meno omogeneo di attività, venga fuori una potenza produttiva più grande di prima.

F. Questa è la vecchia tesi di Marx che il capitalismo, nel suo sviluppo, non è altro che produzione di macchine a mezzo di macchine.

C. Esatto. Solo che la macchina ora deve essere intesa a scala generale, come individuo produttivo sociale; e l'ulteriore macchina che esso produce non è altro che un individuo produttivo sociale più grande ancora, ovvero più capace di produrre.

R. Insomma, per tornare alle destre, sarebbe proprio questo modo di funzionare dell'economia capitalistica di oggi a spingere in direzione di una società più coesa e irreggimentata al suo interno e più aggressiva verso l’esterno.

C. Proprio così.

R. E però l’immagine che la società da di sé è esattamente opposta: si presenta come estremamente disgregata…

C. E’ disgregata dalla parte delle classi subalterne, che non riescono a “fare blocco” spontaneamente. Ma questa disgregazione è funzionale alla riaggregazione su un altro piano: si disgrega la capacità di autonomia delle persone, e si sviluppano processi densissimi di omologazione e di comportamenti univocamente indirizzati.

F. Ma non è solo la destra che raccoglie una tale spinta. Essa vive anche nelle forze di centro. In parte vive nella stessa sinistra governista.

C. Sì, ma la destra è avvantaggiata dal fatto che nel suo orizzonte culturale c’è esattamente l’idea del compattamento, della gerarchia, della struttura “ad esercito”.

R. Non negherai, però, che rispetto all’epoca del fascismo classico, oggi c’è molto più individualismo… Insomma, non so se dici veramente cose giuste, perché l’individualismo più sfrenato mi pare la regola, molto più della irreggimentazione.

C. Insisto: è un individualismo che rompe, per ragioni storiche oggettive, la dinamica collettiva dell’esser classe “per sé”; ma non è un individualismo che rompe col sistema. Ovviamente, la compattezza dell’insieme non è mai data una volta e per tutte. E’ un qualcosa che deve essere sempre guadagnata faticosamente, in una dialettica serrata anche all’interno dello stesso campo. Non a caso le destre propongono, qui in Italia, direttrici di marcia diverse.

R. Già, non dicono mica la stessa cosa. La Lega è comunitaria e xenofoba, Alleanza Nazionale è autoritaria e nazionalista, Forza Italia è liberista e clericale. Sono tre modi del tutto diversi di concepire e praticare il compattamento sociale nell’ambito di ciò che tu chiami “totalizzazione”.

C. Proprio così. E questo ci dice con chiarezza che la dialettica politica non è affatto morta, neppure all’interno dello schieramento di destra.

F. Alla fine, però, la quadra la trovano. Prendono l’autoritarismo da AN, il comunitarismo dalla Lega e il clericalismo da Forza Italia. Anche se con non poche contraddizioni e fibrillazioni, io credo che possono comunque convivere il federalismo fiscale e l’identitarismo cristiano, la pratica neo-autoritaria e le regole sciolte del mercato, la cultura razzista e la retorica nazionalista...

C. In ogni caso, quello che abbiamo ora descritto è solo il quadro statico dell’insieme della destra.

F. Cioè?

C. E’ un quadro che va fatto interagire con l’insieme delle dinamiche economiche e politiche. Tanto per cominciare, la politica della destra è chiamata a misurarsi con le spinte concrete della competizione internazionale. Non è mica indifferente se si apre uno scenario di recessione nelle economie occidentali. Si accentuerebbero, in tal caso, fenomeni di distanza dagli Stati Uniti e il determinarsi di nuove geometrie interstatali in Europa.

R. Quindi, con una maggiore integrazione europea.

C. Non necessariamente. Potrebbe anche trattarsi di una riorganizzazione delle linee di coesione europea, o di parti dell’attuale Unione Europea. E poi ci sono anche gli altri: la Russia, la Cina, il Giappone, l’India, i principali paesi arabi. Gli scenari internazionali sono uno dei fattori decisivi che determinerà l’assestarsi concreto della politica delle destre. L’altro fattore è, ovviamente, il conflitto sociale.

F. Già, non è indifferente, non può esserlo, la qualità delle lotte, delle vertenze, dei movimenti che possono emergere nella società.

R. Ma se abbiamo appena convenuto che la società spontaneamente tende all’omologazione…

C. E infatti io non coltivo particolari illusioni su una ripresa generalizzata del conflitto. Almeno nel breve periodo. Tuttavia anche le tendenze all’omologazione si strutturano a più livelli. E l’omologazione stessa, per esser tale, ha bisogno di definirsi rispetto al dato negativo, di porre un diverso, un non-omologato, di fronte a sé. Un primo elemento, perciò, è che esistono, debbono continuare ad esistere, in modo ora latente ed ora esplicito, anche i non-omologati e i poco-omologabili. Il comparto più significativo è costituito dagli immigrati, ma non si tratta solo di loro. Anche le soggettività che la cultura clericale obiettivamente comprime, in primo luogo le donne, contengono in sé germi di resistenza. E queste dinamiche di non-omologazione esistono anche nel mondo del lavoro, nel quale, in ogni caso, aumenteranno i fattori di insicurezza e diminuiranno gli elementi di benessere materiali. Ma altre contraddizioni possono venir fuori dallo stesso comunitarismo: non è certo agevole celebrare l’identità di un territorio e contemporaneamente metterlo a sacco sul piano ambientale…

F. Quindi tu dici che c'è la possibilità di contrastarle queste destre.

C. Questa possibilità c'è. Proprio perché le destre si propongono obiettivamente un compito complesso, e cioè di tenere insieme modalità diverse di compattamento sociale, e anche perché operano in uno scenario aggrovigliato, segnato dall'aggravarsi dei meccanismi di competizione internazionale, avviene che si espongono facilmente, in ogni loro passaggio, all'iniziativa di contrasto. Poi, come è ovvio, l'iniziativa di contrasto bisogna anche saperla fare.

R. Questo è il punto: noi non siamo attrezzati per un lavoro del genere e i soggetti sociali versano nelle condizioni di disgregazione che abbiamo già detto. Quanto alle dinamiche di movimento, sappiamo bene quanto stentino e siano contraddittorie.

F. E' vero, nell'immediato non c'è molto da stare allegri.

C. Vi prego di non diventare più pessimisti di me. Qualcosa è comunque possibile fare. Ma se permettete potremmo parlarne anche la prossima volta.

R. D’accordo. Ne parliamo al nostro prossimo incontro.


Napoli, 30 aprile 2008

RINO MALINCONICO


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