venerdì 20 giugno 2008

Una introduzione ai Dialoghi

di Giovanni Russo Spena

Questi dialoghi di Rino Malinconico sono importanti per la ricostruzione di un senso collettivo e di una ricerca seria sulle ragioni della sconfitta elettorale del 13 e 14 aprile 2008; essi riescono, con grande lucidità e tempestività, con un metodo di condivisione, attraverso appunto l’espediente del dialogo, a mettere a tema i paradigmi fondativi di ipotesi di riflessione e lavoro politico che condivido molto. Alla sinistra anticapitalistica occorre, infatti, una "rivoluzione copernicana" (difficile perché "controcorrente", ma non impossibile, perché vi sono risorse intellettuali, sociali, morali). Sarà una lunga traversata nel deserto, all’opposizione, senza derive istituzionaliste e governiste. Con l'attenzione, spero, di non scambiare i miraggi ingannevoli, i cortocircuiti politicisti per oasi nelle quali riposare le stanche membra. Abbiamo vissuto, infatti, un sommovimento profondo e aspro, nelle viscere della società, che ha ridislocato altrove parti consistenti di quegli strati sociali che la sinistra ha l'ambizione di rappresentare.
La sconfitta elettorale, temo, viene da lontano; è l'espressione numerica di una crisi di rappresentanza che è anche crisi democratica. Se la crisi della sinistra ha una dimensione sociale e strutturale, non vi è "mossa del cavallo", invenzione politicista, che valga come risposta giusta ed efficace. Occorre scavare nelle cause profonde e non inventare percorsi (presunti ed inefficaci) di soluzioni immediate. Rischiamo, altrimenti, il definitivo declino. Non abbiamo saputo incontrare le masse di scontento, dolore, sofferenza sociale che squassano una società che affronta, in dimensioni drammatiche, per redditi, condizioni di vita e lavoro, la prima crisi della globalizzazione liberista e la democrazia dispotica e militarizzata che di essa è proiezione. Di fronte ai luoghi che bruciano, ai territori sconvolti, ai roghi del razzismo istituzionale (e popolare), alla solitudine operaia (che ha raggiunto, marxianamente, il livello massimo di alienazione e mercificazione) ci siamo illusi che fosse sufficiente "mimare" uno scontro di idee nelle aule istituzionali o sugli schermi televisivi. Siamo stati sconfitti, innanzitutto, nella società, perché venivano, dalla globalizzazione liberista, dalla "rivoluzione regressiva" del capitale, sconvolte le figure sociali, mentre precarizzazioni del lavoro e delle vite, delocalizzazioni industriali, intreccio tra economia legale e mafiosa, creavano, nella classe, vere e proprie mutazioni antropologiche, che scindevano i legami collettivi. L'emblema è rappresentato dai settori sindacalizzati, combattivi, di tanta parte della classe operaia del Nord (anche nelle fabbriche di grandi e medie dimensioni) che votano Lega: si forma, quasi, una nuova identità, non più di classe ma "plebea" (nell'accezione gramsciana) che si riconnette ad una presunta etnia, al territorio inteso, razzisticamente, come "esclusione" del "diverso", del migrante.
Questa paranoia è alla base della tremenda, contemporanea "guerra tra poveri", dove si smarrisce l'acquisizione del padrone come sfruttatore di tutte e tutti ed i "penultimi" scacciano gli "ultimi" nella paura, nelle insicurezze ossessive indotte dalla globalizzazione liberista. Le sinistre sono apparse, in questo processo di massa (e strutturale, che si ricollega ai processi di valorizzazione del capitale, alle forme ed ai modi dell'accumulazione contemporanea), del tutto ininfluenti. Una sinistra di mera opinione e autoreferenziale non ha antenne per "leggere" la società. Solo insediandosi di nuovo nei luoghi di lavoro e di vita, con una faticosa ricostruzione vertenziale "dal basso", possiamo riportare la politica di trasformazione nelle coscienze, nei corpi, nel senso di massa, da cui è stata espulsa. Lo spazio pubblico, in questa tempesta, non è mera rappresentazione istituzionale; esso può rivivere solo in rapporto alla società.
La sinistra (più che mai oggi) o è sociale o non è. Sono molto d'accordo con Marco Revelli: "una sinistra svaporata nell'astrattezza nulla può contro la destra sociale della Lega, di Tremonti, di Alemanno. La sinistra potrà ripartire solo se saprà "fare società"; e, soprattutto, costruire il proprio popolo ed il proprio linguaggio". Non mero movimentismo banale, ma una nuova statualità alternativa, evitando partiti contenitori o partiti plebiscitari.
La nostra riflessione non potrà eludere un secondo grande tema, collegato, che costituisce parte importante della riflessione di Rino Malinconico: la concezione stessa del partito comunista contemporaneo, delle sue forme, dei suoi modi d'essere, dei suoi sistemi di relazione. Penso ad un "partito sociale", il coordinamento di un sistema a rete (in cui Rifondazione Comunista, il partito in cui milito, viva come realtà organizzata, insieme alle altre soggettività politiche, culturali, di movimento, associazionistiche). Un sistema a rete che abbatta verticismo e gerarchia ed esalti l'orizzontalità, il mutualismo, la "confederalità dal basso": attraversando il territorio non come luogo dell'esclusione, ma come luogo della relazione, della convivialità, del mutuo soccorso. Dovremo saper far vivere la rete diffusa del "saper fare sociale". I luoghi sul territorio possono essere le "case della sinistra", da costruire subito ed ovunque; così nasce l'incontro tra le differenti soggettività, lottando insieme contro il governo delle destre introducendo all'interno dell'opposizione elementi di programmi anticapitalisti. Non esistono solo i partiti; l'innovazione culturale passa attraverso la piena consapevolezza, il riconoscimento, che esiste, quotidianamente e in ogni dove, tanta politica diffusa al di fuori dei partiti. La tendenza è internazionale, globale: i movimenti acquistano sempre più una dimensione politica; i partiti, se non si trasformano in presidi di democrazia ed organizzatori del conflitto, si riducono, con una deriva burocratica, a ceti politici di rappresentanza.
La nostra capacità innovativa si ricollega alla necessità di ricostruire senso, linguaggio, popolo, attraverso una visione del mondo, un punto di vista alternativo sulla società, una fitta trama di valori condivisi. Non a caso ci troviamo, oggi, a vivere uno "stordimento" della nostra umanità, che genera quello "sciame inquieto" che Bauman descrive.
Non so quale porto raggiungeremo; so che è importante intraprendere il viaggio, la nuova ricerca della società "dentro e contro" la globalizzazione liberista. I "dialoghi" di Rino Malinconico ci indicano la rotta.

Giovanni Russo Spena

Dialoghi sulla sconfitta / 7

DIALOGHI ALL'INDOMANI DI UNA SCONFITTA di Rino Malinconico
parte settima (12 maggio)
UN DIVERSO PARTITO POLITICO

ROSA Ma cosa pensate? che ce la faremo? Dico: ad uscire dal tunnel in cui ci troviamo?

CARLO Volete una risposta sincera?

FEDERICO Certo che deve essere sincera.

C. Allora, per parte mia, posso solo dirvi che non lo so.

F. Pensi che potremmo anche non farcela?

C. Sì, penso che potremmo essere consegnati ad un sostanziale silenzio, e per un periodo non brevissimo.

R. Cioè, permarrà la nostra condizione di extra-parlamentari...

C. Quello è il meno.

F. Alle elezioni europee dell'anno prossimo, sempre che non cambino la legge elettorale e non inseriscano una soglia di sbarramento al 4 o al 5%, è possibile che avremo dei seggi, sia che si presenti una lista comune della sinistra di alternativa, sia che si presentino più liste, tra cui sicuramente la lista di Rifondazione comunista.

R. Meglio, molto meglio tornare ad essere chiaramente il Partito della Rifondazione Comunista anche sulle schede elettorali! Sicuramente andremmo oltre il 3% del mese scorso!

C. Ma anche se prendissimo il 4 o il 5% non ci sarebbe un mutamento vero, non cambierebbero i termini di fondo, e cioè la questione della nostra sostanziale ininfluenza nella società italiana, e soprattutto la questione della sostanziale assenza di una positiva soggettività di classe nelle dinamiche sociali. Insomma è davvero reale la scomposizione del tessuto proletario, che pure quantitativamente, in quanto lavoro dipendente, e comunque subordinato, si estende ormai all'intera società, e ricomprende dentro la sua condizione quelli che una volta erano “ceti medi” e si caratterizzavano per l’erogazione di prestazioni professionali. E’ più esteso, ma è anche più frantumato, il proletariato del mondo di oggi.

F. Hai ragione. La scomposizione è un fatto reale, morde davvero nel profondo. E analogamente, nelle difficoltà che attraversano la stessa globalizzazione c’è la causa vera del crescere dei conflitti orizzontali, con il loro corredo di xenofobia e di chiusura identitaria. E se a ciò aggiungiamo la grande capacità di iniziativa politica delle destre, che riescono a intercettare i sentimenti di frustrazione e paura, svolgendoli in direzione di un nuovo identitarismo localistico e nazionalista ad un tempo, e con contenuti che sono assieme autoritari e clericali, e perciò con una miscela che ricorda molto da vicino quello che in altre epoche e con altre forme sono stati i fascismi, allora la cosa si fa veramente grave.

R. Ma ci siamo anche noi, c’è anche una soggettività politica non rassegnata, che si propone la trasformazione.

C. Sì ci siamo anche noi, ma ci muoviamo con troppo piombo nelle ali. Piombo di ogni tipo.

R. Certo, non si tratta solo di difficoltà organizzative, ci sono anche limiti teorici, di comprensione della realtà, di sottovalutazione dei rapporti di forza…

C. Io ho paura che la crisi sia ancora più profonda, perché investe, per ragioni diverse, tutte e due le principali generazioni che ancora si muovono sul piano della politica di alternativa e del conflitto sociale. E’ qualcosa che è molto visibile dentro Rifondazione comunista, ma vale per tutta la sinistra di alternativa, sia quella politica e sindacale, sia quella che si struttura a livello locale in comitati e associazioni. Mi riferisco, da un lato, alla generazione che si è formata negli anni Settanta, o che si è educata anche successivamente, ma comunque alla maniera degli anni Settanta; dall’altro, ad una più giovane generazione, che ha affiancato l’altra nel movimento no-global, con propri modi di essere e con propri linguaggi. Oggi entrambe possono dare poco.

F. Hanno già dato tutto quello che potevano. Questo intendi?

C. Come generazioni probabilmente sì. Possono restare dei singoli, traiettorie individuali che si collocano sul piano di una scelta ideale; ma come generazioni, come dinamica sociale collettiva, inclino a pensare che non abbiano più alcunché da dire, o da dare.

F. Delle due, quella degli anni Settanta è stata piuttosto coriacea. Ancora oggi, se guardiamo alle aree più o meno militanti, resta preponderante anche quantitativamente…

C. E’ una generazione che ha sentito molto l’etica della responsabilità e del sacrificio. Anzi, la massima kantiana di agire come se il criterio fondativo della propria azione potesse essere assunto a norma universale, il che costituisce il principio proprio della moralità moderna, veniva esaltata al massimo grado, e addirittura si snaturava facilmente in direzione di una vera e propria ipertrofia del soggetto: non solo le proprie azioni venivano vissute come se esprimessero in sé, immediatamente, un valore universale, ma anche come condizione stessa dell’universalità dell'universo-mondo. E’ stata una generazione “atlanteide”. In tanti, forse in troppi, si sono sentiti come Atlante che reggeva sulle spalle il mondo.

R. Con tutti gli errori, anche tragici, di scambiare la propria condizione, il proprio io e la propria volontà, per gli elementi realmente posti alla base dell’universo e della sua storia.

C. Certo, con tutti gli errori tipici del soggettivismo. Ma quello che qui voglio sottolineare è il sentimento forte del sacrificio e della responsabilità.

F. Ma questa generazione è ancora in campo.

C. Sì, ma è più stanca, è una generazione anche di sconfitti. E’ ancora capace di spirito di sacrificio, ma senza gioia. Può ancora dar vita a linee di resistenza, ma non riesce a produrre da sola una vera progressione in avanti.

R. Ci sono tuttavia i giovani, la generazione di Genova...

C. Questo è l’altro piombo che abbiamo nelle ali. La generazione intervenuta dopo, quella effettivamente nuova, formatasi nel movimento antiglobalizzazione o altermondialista o come diavolo vogliamo chiamarlo, è una generazione che ha maturato un individualismo compiuto; ed è attraversata compiutamente dagli stilemi della comunicazione mediatica, e perciò con una curvatura fortemente virtuale delle proprie percezioni. Agli atlanteidi sono succeduti i “narcisi”, ripiegati su se stessi. In quella espressione decisa, così ossessivamente gridata nei cortei contro la guerra in Iraq, e che pure conteneva tanta giusta voglia di protagonismo, e cioè: “non in mio nome”, l’accento cadeva esattamente sull'aggettivo possessivo. Era la prima persona singolare a parlare; non era “non in nostro nome”. Si tratta di un io, senza alcuna apertura collettiva. Questo individualismo, questo spontaneo ripiegamento su se stessi è ovviamente figlio dei tempi. E’ una generazione che ha davanti a sé un futuro nebuloso e un presente fatto di precarietà, di segmenti staccati l'uno dall'altro. E’ una generazione che vive senza tessuti connettivi intorno.

R. E’ la propria condizione materiale che li isola, i giovani d’oggi, che non li mette in comunicazione con quello che c’è intorno.

C. Esatto, mica ci sono disfunzioni genetiche! Ma un determinato tempo produce determinate figure umane, determinati sensi comuni. Se ci si ripiega su se stessi e sulla immediatezza del presente, la voce collettiva diviene più difficile a farsi.

F. E’ davvero terribile quello che dici.

C. Sì. Ma temo che le cose stiano proprio così. Lo spirito di sacrificio nasce quando c’è anche un futuro. Chi ha davanti una prospettiva sa anche sacrificarsi; chi non ce l’ha, è costretto a riempire il proprio sguardo solo di ciò che possiede immediatamente, e cioè se stesso e il proprio presente. E se a questo si aggiunge la forza dell'apparire rispetto all’essere, che oggi è la regola, diventa chiaro quanto pesi questo secondo piombo nelle ali.

R. Insomma, abbiamo, da un lato, una generazione stanca, con un grosso fardello di errori sulle spalle, che ha sbagliato perché ha lungamente ricondotto il mondo a sé; dall’altro, abbiamo una generazione con poche illusioni e perciò anche con pochi sogni collettivi, che tende a ripiegare continuamente in se stessa e perciò la dà vinta in partenza all'atomizzazione della società, allo stato di cose presenti…

C. E’ una sintesi efficace, che condivido.

F. Aspettate un poco. La realtà che viene fuori da questi nostri discorsi mi pare davvero tragica: c’è la scomposizione di classe, e quindi una crisi strutturale del conflitto; c’è la trasformazione delle istituzioni e delle forme della politica, con la conseguente crisi delle dinamiche di rappresentanza; c’è il dissolvimento dei modelli politici e culturali del Novecento, e di conseguenza anche la crisi delle ideologie e delle forme organizzate di queste ideologie, in particolare dei partiti politici di derivazione operaia. Ora scopriamo, in aggiunta, il venir meno delle generazioni attive: l’una perché stanca, l’altra perché attraversata dall'individualismo del nostro tempo. Mi sembra ce ne sia abbastanza per concludere non solo che un’epoca si è chiusa, ma che non ci sia pressoché più nulla da fare.

C. Questo è un esempio perfetto, se permetti, di ragionamento poco dialettico.

F. Che vuol dire?

C. Vuol dire tirare delle conclusioni assolute, là dove invece si chiede semplicemente di accompagnare i problemi al loro svolgimento.

F. Spiegati, perché davvero non ti capisco.

C. E’ presto detto: affermare che il conflitto, la rappresentanza, la forma partito, la stessa ideologia comunista siano entrati in crisi, non vuol dire che essi siano stati automaticamente cancellati dalla storia. Vuol dire semplicemente che sono davvero in crisi e che perciò chiunque pensi di poter continuare alla maniera di prima è un illuso. Ma sbaglia anche chi pensa di poter imboccare un'altra strada senza questo fardello di crisi sulle spalle.

F. Cioè?

C. Cioè occorre puntare ancora sul conflitto, sapendo però che deve essere condotto in modo nuovo; così come occorre continuare ad assumere la politica come rappresentazione di interessi contrapposti, ma tenendo fermo che la rappresentazione deve essere oggi la stessa cosa della costruzione.

R. Gli interessi contrapposti vanno non semplicemente rappresentati ma propriamente organizzati, costruiti proprio dentro la vita sociale.

C. Giusto. E vanno parimenti riproposti il tema della trasformazione e l’orizzonte del comunismo, ma liberandoli di tutte le incrostazioni stataliste e autoritarie che hanno accompagnato il secolo scorso. Anche la forma-partito, ovvero il luogo organizzato per promuovere conflitto, politica di contrapposizione e prospettiva di trasformazione, va totalmente ripensata.

F. Vorrei che su quest’ultimo aspetto ti esprimessi in maniera più chiara.

C. Bisogna percorrere vie nuove. Un partito che si richiami all’ideale del comunismo non può riproporre oggi il modello leninista delle avanguardie organizzate. E neppure il modello del partito di massa centralizzato di tradizione togliattiana.

R. Che deve essere allora?

C. Va chiarito innanzitutto ciò che non deve essere. Non può continuare, per esser chiari, a vivere in maniera assolutamente contraddittoria con la propria idea di società alternativa. Il comunismo prospetta l'estinzione stessa dello Stato, e cioè la sua riduzione a semplice struttura di coordinamento tecnico di una società aperta e costitutivamente attraversata dal protagonismo diffuso delle persone e delle loro libere associazioni. E però tutti i partiti comunisti si sono sempre organizzati in maniera esattamente speculare allo Stato moderno, con una segreteria che corrisponde al governo, un comitato centrale che corrisponde al parlamento, le commissioni di garanzia che corrispondono all'autorità giudiziaria.

F. Insomma, abbiamo riproposto dentro di noi ciò che volevamo abolire.

C. Ma questo poteva anche andare bene quando la prospettiva del comunismo era storicamente immatura, e cioè nell'Ottocento e per buona parte del Novecento, allorché valevano le regole sociali imposte dalla penuria dei beni e delle risorse, con una conseguente obiettiva sproporzione del tempo di lavoro socialmente necessario rispetto ai tempi di vita liberamente creativi e liberamente vissuti. Non era solo per il profitto dei padroni, ma proprio per riprodurre la stessa vita materiale che occorreva spendere l’intera giornata di vita, in una condizione di fatica ininterrotta. In quelle condizioni un partito che parlava di comunismo, ma che si organizzava secondo gli schemi dello stato di cose presenti, poteva anche non stridere eccessivamente. Ma oggi, quando c’è una maturità e anzi la necessità del comunismo, in presenza di uno scivolamento generale del capitalismo stesso verso la barbarie...

R. Sì, va bene; ma, in concreto, che tipo di partito occorrerebbe organizzare?

C. Te la dico così: un partito continuamente aperto alla società, attraversato continuamente da “gruppi in fusione”. L’espressione è di Sartre ed indica esattamente il contrario della condizione “pratico-inerte” e dell’andamento “seriale” che sempre caratterizzano le strutture organizzate, anche un partito comunista. Il “gruppo in fusione” è, invece, un insieme determinato e concreto di presenze, con gli sguardi che reciprocamente si incrociano e con un’attività effettiva e uno scopo reale, e anzi immediato, da realizzare. Occorre far vivere la vivacità dei gruppi in fusione senza cancellare il tessuto connettivo dell’essere partito. Ma questo partito dovrà, in tal modo, essere “a raggiera” e non “a piramide”, orizzontale e non verticale. Penso, insomma, ad un partito che viva come percorsi che si dispiegano e proposte che si discutono, con molteplici e variegate modalità di associazione.

F. Sicuramente un partito di questo tipo, così come lo tratteggi, sarebbe anche naturalmente centrato sul protagonismo delle compagne e dei compagni e praticherebbe al proprio interno quello che è straordinariamente mancato in tutti questi anni, almeno nella mia esperienza di militante, e cioè le condizioni di una democrazia effettiva. Il che vuol dire cancellare la logica dei ruoli a vita sia negli organismi di direzione del partito che nei compiti di rappresentanza istituzionale.

R. Nello statuto di Rifondazione queste cose ci sono.

C. Ci sono, ma su questo ha perfettamente ragione Federico: non sono mai state davvero praticate. E questo la dice lunga sul fatto che non si è capito che “il modo di essere” è esso stesso un contenuto dell’essere. E anzi, di questi tempi, quando dobbiamo ricostruire una capacità di dialogo con la società, il nostro modo di essere è esattamente il primo contenuto che cade sotto gli occhi.

F. Ma poi si tratta anche di rafforzare ulteriormente i dispositivi dello Statuto. Dovremmo saper costruire un partito che abbia come suo elemento costitutivo proprio la critica della politica, ovvero la critica agli elementi di separatezza, di logica meramente gestionale e di orizzonte puramente governista che caratterizzano il normale “fare politica”. Avremmo bisogno, in altre parole, di circoli che assomiglino a vere e proprie “case del popolo”, abitate da soggettività articolate, plurime, che trovino il loro momento unificante nella discussione e nell’iniziativa, e che vivano i ruoli esecutivi come ruoli semplicemente a termine.

R. E’ difficile vederlo un partito del genere, immaginarlo…

C. Meno di quanto sembrerebbe, Rosa. Cosa vieterebbe, ad esempio, di superare la figura del segretario politico di circolo, di federazione, o anche nazionale, e di designare invece, al suo posto, dei portavoce annuali, magari contemporaneamente un compagno e una compagna, per sottolineare la parità di genere? Per un anno, un anno e mezzo, svolgerebbero la duplice funzione di rappresentanza esterna e di coordinamento del lavoro, e poi questa incombenza passerebbe ad altri. E a loro volta le segreterie, o meglio gli esecutivi locali, provinciali e nazionali potrebbero essere costituiti da compagni e compagne designati dai gruppi di lavoro e dai territori, anch’essi in una logica “da portavoce” e “a tempo determinato”.

R. Un partito così fatto mi sembra molto il partito del disordine permanente.

C. E’ vero. Ma l’idea di contrapporre all’ordine del sistema, un ordine simmetrico, che se ne differenzia solo per i contenuti e non per il modo stesso di essere e di proporsi, è una idea sbagliata. Bisogna essere alternativi in senso proprio, nel modo di essere non meno che nelle cose che si dicono.

R. In astratto un partito senza ruoli fissi è certamente una buona cosa, anche seducente. Ma al di là della difficile praticabilità di questo turn over delle funzioni dirigenti, ci potrebbe essere una conseguenza pesantemente negativa, e cioè che la riconoscibilità del partito, le sue figure di riferimento si dislocherebbero inevitabilmente sulle compagne e sui compagni con ruoli istituzionali. Invece di avere un partito dei segretari rischieremmo di avere un partito dei consiglieri, degli assessori, o dei deputati, quando ne avremo di nuovo...

F. Se non è che questo, il rimedio ci sarebbe: basta riproporre anche a livello istituzionale una logica di rotazione, di circolarità, per esempio facendo valere il principio contenuto appunto nello Statuto di Rifondazione, estendendolo a tutte le funzioni istituzionali. Lì si stabilisce un massimo di due mandati, equiparando i consigli e le giunte regionali col parlamento e il governo nazionale. Sarebbe opportuno invece far valere il principio delle due funzioni istituzionali in modo ancora più esteso, comprendendole tutte nell’elenco, in maniera paritaria, dal consigliere di municipalità al senatore della repubblica. Per nessuno dovrebbe esserci deroga: avremmo in tal modo un turn over anche per le nostre figure istituzionali.

R. Questo mi pare ancora più difficile del ricambio dentro il partito. Sul piano istituzionale contano i voti degli elettori e gli elettori guardano anche alle persone. Non è la stessa cosa mettere in lista Caio invece di Sempronio…

C. Questa osservazione risponde al vero. Ma noi siamo chiamati a fare battaglia attiva, a far valere il principio della partecipazione diretta, a contrastare la cultura della politica come luogo separato, consegnata a degli specialisti con una semplice scheda elettorale. Per un partito che ha come suo orizzonte il governo della realtà che c’è, e non la sua trasformazione, ha senz'altro senso funzionare alla maniera della politica di oggi, con il leader, o l’aspirante leader, o il sotto-leader, che dallo schermo televisivo parla all'elettore seduto in poltrona o sul divano. Non c’è bisogno di azione da parte delle persone, esse devono solo ascoltare. Molto diverso è il nostro caso. Noi vogliamo trasformare la realtà che abbiamo davanti; siamo, nella nostra ispirazione di fondo, costitutivamente rivoluzionari: per noi non va perciò bene il ridurci ad una appendice della faccia che dal televisore parla al telespettatore. Le persone in carne e ossa noi dobbiamo coinvolgerle attivamente in una comunità, facendo vivere davvero quel “paese nel paese” con cui tante volte, parafrasando Pasolini, riempiamo i nostri discorsi.

R. Alzo bandiera bianca. Alla tua logica stringente, e al richiamo alla nostra identità rivoluzionaria, non posso obiettare alcunché.

F. Ma un partito come quello che abbiamo delineato riuscirebbe poi a fare politica?

C. Certo. Sarebbe un partito organizzato comunque per fare politica, ma politica in un altro modo. Se per politica intendi la logica delle partite a scacchi, delle “mosse del cavallo” che sparigliano le strategie avversarie, del sacrificio dei pedoni, dell’insidia da tutti i lati alla regina, della sistemazione più opportuna degli alfieri e delle torri per minacciare il re, per cui sullo scacchiere della pura attività di rappresentanza noi strutturiamo collocazioni, lanciamo campagne, prendiamo posizioni., in una logica tutta centrata sulle relazioni che costruiamo o che scompaginiamo rispetto alle altre forze politiche, allora il partito che qui si prospetta -aperto, continuamente attraversato da collettivi di lavoro, ricco di dibattiti e iniziative, luogo di elaborazione e di convivialità ad un tempo, orizzontale e molecolare nel suo modo di funzionare, proiettato nella sua azione sui problemi immediati non meno che sulle trasformazioni epocali- questo tipo di partito sarebbe senz’altro inadeguato. Ma la logica della politica come gioco di scacchi tra avversari che si studiano, e che, mossa dopo mossa, alimentano un dibattito totalmente separato dalla vita di ogni giorno, può essere tutto fuorché rivoluzionaria. Sta nel perimetro del gioco, sulla scacchiera appunto. Non rovescia il tavolo, non propone altre cose al di fuori della partita che gioca. E’, insomma, una idea della politica totalmente congruente con le logiche di conservazione del sistema. Poi si può certamente essere polemici, dire cose giuste, fare denunce appropriate: ma se la cultura che ci muove è del tipo della “rappresentanza” invece che della costruzione della soggettività antagonista, resteremo pur sempre dentro lo scenario di ciò che c’è, con la nostra piccola “parte in commedia”, quella del bastian contrario, quella che sottolinea le incongruenze del testo, che arriva anche allo sghignazzo e all’invettiva rabbiosa, ma che, per restare alla metafora teatrale, non rompe mai la “quarta parete” e alimenta anch’essa la separazione tra l’al di qua e l’al di là del sipario. La gente concreta, per questa via, anche noi contribuiamo a mantenerla nella condizione di un pubblico che assiste.

F. Certo che è proprio difficile fare i rivoluzionari. E poi adesso, in queste condizioni, con noi che siamo appena uno sputo nel deserto…

R. Già, non è che ci manchino le idee; è che non abbiamo la forza per attuarle.

C. Sì, può essere anche che non ci riusciremo.

R. Allora tu pensi che non ce la facciamo? sì, dico, ad uscire dal tunnel in cui siamo capitati?

C. Vuoi una risposta sincera?

R. Certo che deve essere sincera.

C. Non lo so. Questa è la mia risposta: So solo che dobbiamo provarci. Anche se poi non ce la faremo.

R. Allora perché provarci?

C. Perché è giusto.

F. E perché siamo comunisti.

R. Che di questi tempi non so più se sia una disgrazia o una fortuna..

C. Sicuramente una disgrazia. Ma allo stesso modo che è una disgrazia la condizione di ogni essere umano. Guardare senza veli l'ingiustizia e sapere al tempo stesso che una condizione decente di vita per tutti è davvero possibile, e che l'uomo potrebbe forse essere felice: tutto ciò è straziante, ma è anche quello che ci permette di dare un senso al nostro stesso vivere.

F. E poi noi non sapremmo fare altro, perché abbiamo il maledetto vizio di sentirci parte di un tutto.

R. Proprio così. E allora andiamo ancora avanti, con un’impresa collettiva che non si sa dove ci porterà davvero...

C. Ovunque vorrà condurci ne sarà valsa la pena. Qualcuno diceva che non è tanto importante il porto che si raggiunge ma il viaggio che si intraprende, col soffio del vento tra i capelli e lo spruzzo delle onde sulla nave.



Dialoghi sulla sconfitta / 6

DIALOGHI ALL'INDOMANI DI UNA SCONFITTA di Rino Malinconico
parte sesta (8 maggio)
IL PROGRAMMA DELLA TRASFORMAZIONE

FEDERICO La domanda con la quale ci siamo lasciati l’ultima volta riguardava il programma di alternativa di società: come andrebbe strutturato e come potrebbe diventare iniziativa concreta.

ROSA In altri termini, non come si alimenta la lotta di classe, ma come si spinge in direzione del comunismo.

CARLO Non è necessario contrapporre le due cose. Sono proprio le specifiche vertenze, lo scontro sulle questioni politico-culturali e il contrasto sui temi di rilevanza sociale a far vivere la prospettiva dell’alternativa di società. Tuttavia è vero che essa va anche specificamente declinata nelle situazioni di lotta, nelle dinamiche di movimento, negli schieramenti che si determinano sulle diverse questioni; e quindi va costruita anche come discorso compiuto.

F. Io credo che si debba anzitutto riconoscere l’attualità del comunismo. Voglio dire che non si tratta di discorsi “per i giorni di festa”, ma di una prospettiva che è già matura nelle cose. In altre parole, io non credo che abbia più molto significato la distinzione tradizionale tra “riforme” e “rivoluzione”.

C. Sono d’accordo. Non è più attuale questa distinzione, come non è più attuale una distinzione rigida tra soggettività specifiche, interessi particolari e interessi generali, e ciò esattamente perché la potenza produttiva degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di produzione ha compiutamente sopravanzato il tempo di lavoro effettivo. Quello che era stato previsto dal Marx dei “Grundrisse” sta ormai sotto i nostri occhi, nel senso che non è più individuabile, non è più dato un valore definito delle specifiche prestazioni lavorative. La combinazione sociale della produzione e del lavoro giunge a tal punto che ogni cosa concorre, e deve necessariamente concorrere, alla produzione stessa: il tempo di lavoro tradizionale, ma anche tutto ciò che in passato era “tempo di vita”, le strutture tradizionalmente produttive (fabbriche, uffici, negozi), ma anche quelle che siamo abituati a pensare come “strutture civili” (scuole, ospedali, spazi ludici), il vivere lavorativo, ma anche il vivere sociale. Proprio perché è intervenuta questa inedita “totalizzazione” del rapporto di capitale, e l’”individuo produttivo sociale” è una realtà dell’oggi e non una mera astrazione teorica, allora davvero non resta più molto spazio per una politica fondata sulla distinzione rigida di soggetti ed interessi. Non c’è più spazio, beninteso, se si resta dentro le coordinate del sistema economico e sociale di tipo capitalistico.

F. E’ esattamente quello che intendevo. In tutta la seconda metà del Novecento la sinistra europea di ispirazione socialdemocratica, terzinternazionalista ed eurocomunista, ha puntato a condizionare il quadro generale a partire dalla politica governativa, proponendo misure mitigatrici delle sofferenze sociali, insistendo su leggi di tutela, delineando una strategia di sviluppo produttivo e di contestuale redistribuzione della ricchezza. E’ ancora possibile muoversi sul filo di un tale orizzonte? Con la logica, appunto, dello “scambio” politico-sindacale, facendo pesare i nostri (pochi) voti nelle istituzioni, la nostra (relativa) capacità di mobilitazione della piazza, la stessa forza d’inerzia di un blocco sociale, che di suo è già pochissimo consolidato e compatto? Purtroppo per noi, la realtà è diventata molto più complicata rispetto a venti, trenta anni fa, e ciò anche al di là delle debolezze della nostra parte. Non funziona più la logica dello “scambio”: né noi, né “loro” abbiamo molto da scambiare. Voglio dire che non possiamo più contrattare, né noi né il capitale, sulla base di quantità chiare e definite: “vogliamo tot perché diamo tot”. Il “tot che possiamo dare” e il “tot che potremmo ricevere” sono già inesorabilmente attivati, fin dall’inizio, nel ciclo produttivo generale, e comunque concorrono, proprio come hai detto ora, indipendentemente da qualsiasi scambio, alla potenza produttiva generale.

C. Proprio così. Del resto, ci sono conferme evidenti di questo “blocco dello scambio”: la concertazione che prende il posto del vecchio scambio sindacale; la politica di destra che viene portata avanti anche dai partiti e dai governi di sinistra. E’ questione di meri tradimenti? Di sfortunati tradimenti progressivi -da Wilson a Blair in Inghilterra, da Berlinguer a D’Alema e Veltroni in Italia, da Brandt a Schroeder in Germania, e via dicendo? O, invece, è questione che nelle nuove condizioni il patto fordista non solo degenera, ma diventa propriamente impossibile? In altre parole, non si tratta di politiche codarde, ovvero di un semplicistico asservimento della politica all’economia. La politica anzi c’è, c’è e resta forte dappertutto, tanto da arrivare a costruzioni di portata epocale: l’Euro, la nuova NATO, il G8…; così come forte resta, dappertutto, il ruolo dello Stato, che continua, anche più di prima, a governare l’economia e la società, pur senza gestire direttamente come un tempo.

R. Politica e Stato mantengono la loro centralità ad una sola condizione: che assumano per intero il punto di vista generale del capitalismo di questa fase, e diano vita a quello che è stato definito negli anni scorsi, indubbiamente con efficacia propagandistica e forse con limiti analitici, il "pensiero unico", un intreccio vigoroso di cultura liberista e politiche neoautoritarie, magari a rappresentazione partitica variabile, ma in definitiva segnato sempre più da una voglia di “guerra”, come dimostra la stessa vicenda irakena, e da esplicite pulsioni reazionarie, come dimostra, in tutto il mondo, il rinnovato slancio delle destre e financo dei veri e propri fascismi.

C. Ma proprio questa rinnovata giovinezza dello “spirito borghese” è la spia più evidente che siamo ad una nuova fase storica nei rapporti di forza tra le classi, una fase caratterizzata non solo dall’impossibilità di una trasformazione “dall’alto” del sistema, ma anche dall’inanità delle “proposte redistributive” e della logica di “condizionamento istituzionale”. Una ulteriore riprova è data dal paradosso per cui crescono le sofferenze da un lato, e, dall’altro lato, diminuiscono elettoralmente, o restano inchiodati a piccole percentuali, i comunisti e i partiti critici del “pensiero unico”. Il punto da considerare è che la critica non ha proprio più spazio come “critica interna” al sistema capitalistico, magari sul presupposto di una contrapposizione possibile tra “new deal” e liberismo sul piano interno, e tra diplomazia e guerra sul piano esterno. Il liberismo, più o meno temperato, è il capitalismo del nostro tempo, non una sua degenerazione. Come lo è la tendenza alla guerra. Questo capitalismo si lascia governare sì dalla politica, ma solo sul presupposto intoccabile della flessibilità dei fattori sociali.

R. Ma in una situazione del genere, quale orizzonte politico resta alle forze antagoniste? Mica dobbiamo abbandonare le questioni che concernono, qui ed ora, il lavoro e lo sfruttamento?

C. Non diciamo fesserie, per favore. La trincea del lavoro e della organizzazione produttiva non va sguarnita affatto. Ma essa, nelle forme politiche e sindacali che conosciamo, è una trincea costitutivamente di difesa: difesa dai licenziamenti, dall’abbassamento dei diritti, dalle decurtazioni salariali. La tenuta su questi temi è importante, perché riguarda l’esperienza concreta degli oppressi e degli sfruttati, la loro identità collettiva; tuttavia non porta, non può più portare, di per sé, ad un mutamento qualitativo dei rapporti di forza, ad un nuovo antagonismo. Anzi, l’iniziativa antagonista, se resta tutta incentrata sul punto della produzione sociale, è destinata ad un doppio scacco: da un lato, rimane prigioniera di una inevitabile “rincorsa a perdere” per quanto riguarda i risultati specifici, proprio per l’impossibilità di far valere strategicamente le “rigidità proletarie” dentro gli attuali processi produttivi; dall’altro, si condanna ad una marginalità sostanziale sul piano politico, e questo perché il rapporto di capitale concentra oggi la sua esistenza e il suo sviluppo non più sulla produzione immediata, e cioè sul lavoro vivo, bensì sui fattori specificamente sociali, vale a dire la potenza degli agenti, la combinazione sociale del lavoro, la mobilitazione produttiva del corpo sociale… Insomma, se non facciamo il salto concettuale dai temi della produzione sociale alle questioni della riproduzione della vita materiale (e spirituale), se non passiamo dalle proposte sui tempi di lavoro alle proposte sui tempi di vita, e se soprattutto non riorganizziamo anche il nostro stesso parlare di “lavoratori”, introducendo politicamente il concetto di “persona”, e rinvenendo, in altri termini, nella nostra “logica emancipativa” le più compiute, ed oggi anche più attuali, ragioni della “liberazione”, e se anzi, non cominciamo a parlare proprio di “liberazione” e non più di “emancipazione”, se non apriamo, in sintesi, noi stessi e la teoria medesima cui ci ispiriamo, ad una profondissima “rivoluzione culturale”, e se non operiamo risolutamente in questa nuova direzione, non avremo davvero scampo: la marginalità, quella vera, quella di spessore storico, ci resterà attaccata addosso, nel nuovo secolo più che mai.

F. Sottrarsi al rischio della marginalità… Non mi pare certo facile. Dovremmo recuperare interamente il piano della dialettica tra società e politica, nel senso che a differenza della politica borghese, che conosce appunto le sole ragioni della politica come governo, occorre continuare a presentare testardamente le “ragioni della società”, denunciandone le disarmonie, parlando per i tanti che sono “tagliati fuori” dallo sviluppo, sostenendo soprattutto la causa di quelli che questa società la reggono davvero, col proprio lavoro di sfruttati e con la propria condizione di oppressi…

C. Io penso che occorra andare anche oltre questa dinamica. Anzi, il punto è che tale dinamica di denuncia, lotta e proposta dovrà essere ricompresa entro un più ampio quadro di riferimenti, e sciolta a nuovi significati. In altre parole, la contraddizione tra politica e società rinvia oggi ad una più lacerante ed ultimativa contraddizione: tra politica e società da un lato ed umanità dall’altro. La società è ormai tutta compiutamente capitalistica, e dentro il rapporto di capitale viene tutto ricompreso, anche il nostro tempo libero, anche le sacche di “arretratezza”, finanche gli squilibri, mentre tutta la realtà diventa, contemporaneamente e in progressione, sia merce che fattore produttivo. Proprio perché è intervenuta la totalizzazione del rapporto di capitale, con la connessa integrazione di economia, politica e società, il punto di partenza di un discorso di liberazione dovrà oltrepassare necessariamente le colonne d’Ercole dell’orizzonte emancipativo: non potrà che incentrarsi sul “senso umano”, sull’”istinto di sopravvivenza” dell’uomo, quello che appunto resiste alla sua metamorfosi in merce e fattore produttivo.

R. In concreto?

C. In concreto: corpo, affetti, cultura, natura. Da qui si dipana, può dipanarsi, una nuova prospettiva di antagonismo e trasformazione. Dobbiamo prospettare cioè una rivoluzione anzitutto antropologica, e solo per questa via anche sociale e politica.

R. Capisco dove vuoi arrivare: dobbiamo partire dagli esseri umani, non dagli assetti sociali.

C. Sì, ma non è solo perché la realtà sociale è tutta interna al sistema, al rapporto sociale di capitale. Il partire dagli esseri umani ci permette di mettere assieme con linearità la rivendicazione particolare e la critica al sistema complessivo. Parlare della contraddizione tra corpo e capitale significa, per esempio, riannodare tanta parte delle sofferenze sociali, tutto ciò che concerne la materialità del vivere: il livello dei consumi, l’ampiezza dello spazio, l’integrità della crescita. Il corpo postula nutrimento, mobilità, sviluppo, salute; e dunque un reddito adeguato al consumo, uno spazio accogliente ed amico, un arredo articolato cui riferirsi, un controllo costante dei fattori di salubrità. Non si tratta, forse, di un vero e proprio programma rivendicativo? Dal reddito di cittadinanza (o salario garantito, o salario sociale che dir si voglia) al diritto alla casa per tutti, dalla disponibilità piena dei trasporti all’arredo urbano “a misura d’uomo”, dalla certezza della previdenza all’efficacia dell’assistenza sanitaria.

R. E’ vero.

C. E analogo è il ragionamento a proposito degli affetti e dello svolgimento spirituale degli uomini. L’affettività significa “tempo per gli affetti”, significa incontro, significa scelta. I punti del programma diventano così anzitutto quelli che puntano a liberare il tempo, riducendo in particolare l’orario di lavoro e i periodi di obbligo sociale; ma si tratta anche di prospettare l’abolizione delle separazioni e delle barriere, sia quelle macroscopiche tra stati e razze, sia quelle minute del mercato, che recinta di prezzi e biglietti anche gli spazi ludici e d’incontro; si tratta soprattutto di tutelare le scelte e gli orientamenti di vita di ciascuno, restituendo a ciascuna persona la propria responsabilità e la propria diversità. E lo stesso vale pure per la cultura. Da un lato, la disponibilità piena delle conoscenze sociali e la diffusività, la compiutezza e la pluralità dell’informazione; dall’altro, la libertà della ricerca e del sapere; dall’altro ancora, la tutela puntuale del diritto per tutti all’apprendimento. Su questi nodi si possono (e si devono) costruire schieramenti, lotte, proposte, proprio nel senso generale del nostro discorso: i contenuti dell’umanità contro i contenuti del capitale

R. E’ una logica convincente. E sicuramente va bene anche sull’ambiente, perché, oggi come non mai, le relazioni basate sul profitto producono degrado, inquinamento, distruzione degli habitat e dei sistemi ecologici…

C. Ma soprattutto impediscono una nuova necessaria osmosi tra uomo e natura, come rafforzamento reciproco della naturalità dell’uomo e dell’umanizzazione della natura. Che le leggi di natura non siano il punto più alto dell’orizzonte è, io credo, un dato pacifico del pensiero moderno, non solo per i marxisti: la natura ragiona in termini di specie e sacrifica gli individui; gli uomini, al contrario, sono propriamente, oggi, dopo tanti secoli e millenni, degli individui.

F. Sono individui sì, ma con un ritmo naturale.

R. Certo. E proprio qui sta il punto: che tale ritmo, col consumo capitalistico dei nostri tempi e dei nostri bisogni, è oggi disperso. Rivendicarlo come orizzonte, significa molte cose: la critica delle produzioni nocive, superflue ed antinaturali sicuramente, ma anche la tutela degli spazi e delle specie, così come la naturalità degli alimenti e degli strumenti.

C. Vedo che siamo tutti d’accordo. Ma va capito appieno il nodo teorico di fondo, e cioè che partire dal corpo, dagli affetti, dalla cultura e dalla natura significa prospettare un orizzonte di trasformazione incentrato esattamente su una moderna idea di “cittadinanza umana”, superando tutte le logiche “sviluppiste” e articolando in chiari e definiti contenuti l’indicazione storica della nostra parte politica: il comunismo come libera espressione di tutti e di ciascuno, ovvero “da ciascuno secondo le sue possibilità e a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Non dobbiamo avere timore a pronunciare parole come “cittadinanza” e “diritti”, “umanità” e “persona”. D’altronde abbiamo sempre saputo che a coronamento della trasformazione sociale, ci sarebbe dovuta essere una “nuova umanità”, uno sbocco antropologico. La novità è che quest’orizzonte oggi, nell’epoca della “totalizzazione del rapporto di capitale”, non viene più “dopo”; bensì accompagna fin dall’inizio l’antagonismo e la spinta rivoluzionaria. L’accompagna costitutivamente, nel senso che ne ri/definisce le parole d’ordine e gli obiettivi.

F. A ben vedere, si tratta di far uscire le nostre proposte non dal nostro cervello, e neppure dal passato, dagli anni ’30 in America o dagli anni ’60 in Germania o in Italia; le dobbiamo ricercare, invece, proprio nel punto delle novità intervenute nella produzione sociale, svolgendole alla maniera di questa che tu chiami “nuova cittadinanza umana”.

C. Esatto. Ci dicono che ciascuno di noi dovrà cambiare lavoro quattro o cinque volte nella vita? Bene. Noi dovremmo rispondere che ciascuna persona dovrà disporre anche di quattro o cinque anni sabbatici, nei quali prepararsi -professionalmente, psicologicamente e praticamente- al cambiamento. Ci dicono che occorre flessibilità e responsabilità nel lavoro? Bene. Dovremmo rispondere che la flessibilità implica più formazione, scolarizzazione più lunga, più ampi tempi di riposo per il recupero psicologico e fisico, e che la responsabilità ha senso solo in un quadro di autogestione e autocontrollo della prestazione lavorativa. Ci dicono che l’economia è globale, che non ci devono essere più barriere per le merci e il capitale? Rispondiamo che lo stesso vale per il lavoro, che non deve conoscere più particolarità e deve essere “uguale” dappertutto come valore e come diritti, così come dappertutto le frontiere devono essere aperte ai lavoratori e alle persone.

R. Insomma, al di là dei singoli specifici obiettivi, va tenuta ferma la direzione di marcia complessiva, che è la critica del sistema.

C. Sì, e la critica deve essere chiarissima riguardo al contenuto di fondo: capovolgere il principio di “sussidiarietà”. Dentro l’attuale rapporto di capitale ciò che qui abbiamo chiamato “nuova cittadinanza umana” è un mero residuo, è quello che resterebbe, semmai restasse!, dopo la flessibilità, il mercato, il profitto. Per la nostra parte, il ragionamento è, deve essere, esattamente opposto: siano flessibilità, mercato e profitto i residui, quello che resterebbe, semmai restasse!, dopo i diritti di cittadinanza…

F. Non so, Carlo. L’orizzonte che tu tratteggi mi affascina, ma ho paura che sia un tantino astratto.

R. Anche a me fa lo stesso effetto. L’iniziativa politica è certo definire per noi una progressione di marcia, ma è anche una capacità di dare risposte a situazioni reali, che riguardano la condizione delle persone concrete.

C. E perché mai sarebbe astratta la prospettiva di una “nuova cittadinanza umana”? Mica impedisce di costruire lotte, di promuovere campagne politiche, di formulare proposte che rispondano a situazioni concrete. Anzi, tutte queste cose le valorizza ulteriormente, poiché le connette ad una prospettiva complessiva…

R. Probabilmente è così, ma vorrei visualizzarlo meglio, rendermi conto della praticabilità di una impostazione del genere.

F. Sì, sarebbe utile una esemplificazione. Per esempio, che connessione potrebbe esserci tra i diritti di cittadinanza umana e i problemi che attraversano il nostro Mezzogiorno, con la questione meridionale che continua…

R. O la questione settentrionale. Oggi c’è anche una “questione settentrionale”…

C. Va bene, se serve a tranquillizzarvi… Però scelgo il tema del Sud ed eviterei di parlare di questione settentrionale. Nel Nord dell’Italia esistono molteplici ragioni di malessere e anche di vera e propria sofferenza, ma esse attengono a problemi di carattere generale, che riguardano il nostro paese nel suo complesso e hanno molto a che vedere con le dinamiche più negative della globalizzazione. Mi riferisco, in particolare, alla condizione del lavoro, reso oggi precario e insicuro anche nei luoghi storici di un sistema industriale che è stato attraversato, nel corso degli ultimi decenni, da processi giganteschi di esternalizzazione, riconversione e delocalizzazione. Il lavoro degli operai, dei tecnici e degli impiegati è meno garantito di quindici o vent'anni fa: non si sa fino a quando si andrà avanti, peggiorano le condizioni di tutela della salute e i livelli di sicurezza, non si riesce ad arrivare alla fine del mese. Sono le questioni del lavoro e del salario quelle che attraversano drammaticamente il Nord. Ma lo ripeto: non in quanto Nord, ma in quanto territorio principale dell’economia italiana.

R. Questo è giusto. D’altronde le stesse chiusure municipalistiche, che diventano al Nord così intense e rancorose, si spiegano anche come tentativo di difesa dai processi di omologazione indotti dall’attuale economia globalizzata. Le specificità dei territori, le vocazioni produttive tradizionali, il patrimonio di tradizioni e cultura delle diverse comunità, le stesse linee del paesaggio: tutto viene fagocitato in un indistinto mercato generale che rende tutto uniforme e tutto piega entro l’ambito angusto del valore delle merci. Di qui lo spaesamento culturale, le memorie che sembrano vacillare. Di qui anche i cortocircuiti politici, con le pulsioni identitarie, declinate dalla Lega in chiave razzista, e le spinte reazionarie che accolgono il mercato e chiudono alle persone, declinate dall’insieme della destra con particolare virulenza anche in questa ultima campagna elettorale.

F. In verità, le stesse problematiche che ci consegna il Nord vivono anche al Sud. Con l’aggravante che qui esse si intrecciano con una specifica e corposa “questione meridionale”, una questione che narra ancora di vecchie arretratezze e di insufficienze storiche nello sviluppo economico e sociale, ma che si presenta soprattutto in forme nuove, con caratteristiche pienamente interne all’attuale ciclo del capitalismo. Il punto decisivo risiede nel modo stesso di funzionamento dell'economia di oggi, che tende ad essere compiutamente duale anche nei paesi avanzati, con la creazione di aree forti (segnate comunque da una rigida compressione del lavoro), e il parallelo determinarsi di aree deboli, destinate al declino o addirittura al degrado e alla marcescenza sociale. L’affanno attuale del Sud si spiega anzitutto con il modello sociale costruito dalla globalizzazione capitalistica. Viene incessantemente riprodotta, a scala planetaria, una società atomizzata, con poca capacità di interazione sul piano delle culture e delle dinamiche collettive, unificata esclusivamente dalle regole del mercato. Ciò si traduce nel nostro Sud in un moltiplicarsi abnorme della disgregazione economica e sociale, proprio perché la spinta generale alla frammentazione trova un terreno già fertile, preparato da una storia antica di squilibri e disarmonie. Il Sud che frana, che si piega sotto il peso della criminalità organizzata, dei disastri ambientali e della precarietà assoluta dell'esistenza, è un'immagine chiarissima della moderna barbarie dei nostri tempi.

R. Sì, ma come si risponde a tutto questo?

C. Io dico che si risponde ponendosi per prima cosa una domanda: la crisi del Sud è una crisi anzitutto economica o è una crisi anzitutto sociale?

R. Che domanda è? E’ certamente tutte e due le cose.

C. Vero. Ma è decisivo stabilire quale sia la nota dominante. Io penso che siamo in presenza di una questione sociale prima ancora che economica. E dico questo non a partire dal nostro lessico, che tutto riconduce alle relazioni sociali, ma proprio a partire dal funzionamento della moderna economia capitalistica. Ancora alcuni decenni or sono, l’economia si ritagliava un ruolo di assoluta protagonista, offrendosi come l’elemento dinamico delle vicende umane, come l’artefice quasi unico della trasformazione del mondo. La società si strutturava attorno ad essa e da essa veniva propriamente plasmata a propria immagine, nel senso che l’economia capitalistica omologava a sé tutti i rapporti sociali che incontrava, determinandoli come elementi di una sempre più compiuta società capitalistica. Così il capitalismo è progressivamente diventato, anche nel nostro paese, una realtà sociale generale, fino a giungere alla sua più completa estensione all’insieme dei rapporti sociali, al punto che ora lo stesso processo di valorizzazione del capitale fuoriesce dal semplice tempo di lavoro contabilizzato dal capitalista come immediato capitale variabile del proprio investimento e si dimensiona concretamente sul più ampio movimento dell’individuo produttivo sociale (il General Intellect suggerito dal Marx dei “Grundrisse”). Proprio questa nuova dimensione cooperativa della valorizzazione, ciò che abbiamo indicato più volte con la parola “totalizzazione”, determina una irreversibile novità storica: adesso è esattamente la società nel suo complesso a condizionare l’economia, a descriverne i limiti e le possibilità, a dare ad essa prospettiva o declino. In un tale quadro, appare assolutamente riduttiva la tesi che rinvia la situazione di crisi in cui versa il Sud alla sola storia concreta degli interventi pubblici ed alle scelte di indirizzo e sostegno economico succedutesi nel corso degli anni. Così come è semplicistico sostenere che le politiche economiche meridionaliste non abbiano prodotto effetti positivi soltanto perché sarebbero state, sempre e comunque, o intrinsecamente sbagliate o quantitativamente insufficienti; e che, al contrario, se fossero state pienamente congruenti con i precetti dell’economia politica più rigorosa, e per giunta ampiamente soddisfacenti sul piano della quantità delle risorse, non avremmo neppure più una questione meridionale.

F. Guarda però che veramente il sostegno economico al Sud è stato insufficiente, o meglio ha oscillato, nel corso dei decenni, tra momenti intensi di trasferimento di risorse e momenti di sostanziale rallentamento del flusso degli investimenti; e però nel complesso è stato, sul piano quantitativo, al di sotto delle possibilità e delle necessità. Inoltre talune scelte fatte in passato, per esempio l'industrializzazione per poli, oppure la velleitaria integrazione di strutture portuali, industrie chimiche e terminali energetici, o anche il finanziamento polverizzato all'agricoltura, sono state sbagliate proprio sul piano dell’efficacia economica, tanto è vero che si sono arenate nel breve volgere di qualche lustro.

R. E non va neppure dimenticato come l'intera politica meridionalistica sia stata enormemente segnata da sprechi, ruberie, mancanza di programmazione...

C. Ma tutto questo ancora non spiega a sufficienza il disastro del Sud. E’ necessario piuttosto individuare nelle caratteristiche proprie del tessuto sociale meridionale il principale grumo che blocca i passaggi in avanti. In altre parole: quanto ha pesato e pesa, nell’affanno del Sud, il fatto che proprio nel Mezzogiorno, e in Campania in modo particolare, la pratica e la cultura della plebe cittadina, fondata su una logica di nettissima scissione tra le dinamiche dell’esistenza e la realtà del lavoro, abbia storicamente schiacciato la pratica e la cultura dell'elemento contadino, il quale invece, nel Sud come ovunque, intrecciava strettamente e continuamente, nella sua stessa quotidianità, la fatica e la vita?

F. Ma dove vuoi arrivare con questo ragionamento? Alle carenze antropologiche del Sud?

C. No. Voglio arrivare alla storia che continua a pesare. E voglio arrivare soprattutto al fatto che nessuna ricetta esclusivamente economica può davvero affrontare una questione meridionale diventata oggi così complessa, e una realtà sociale così lacerata e lacerante, così piena di contraddizioni. Siamo nell’epoca in cui un reale ed armonico avanzamento economico riesce solo se si colloca entro l’alveo di una società attraversata da relazioni positive al suo interno, che costruisce e conserva elementi di civiltà finanche sul piano dei più minuti legami interpersonali. Il punto decisivo è che qualunque analisi della realtà sociale e, a maggior ragione, qualunque proposito di trasformazione dei rapporti di produzione, deve guardare con grande attenzione non soltanto ai dati nudi e crudi dell’economia, ma anche alla qualità intrinseca del tessuto sociale, al segno che contraddistingue le relazioni interpersonali, al comune senso civico, al grado di autonomia intellettuale degli strati popolari, ai codici comportamentali, al formarsi dei processi di identità e di appartenenza. Occorre far pienamente interagire società ed economia, tanto sul piano dell'indagine quanto sul piano della proposta, proprio perché già esse interagiscono nella concreta realtà del nostro tempo.

R. In altre parole, non basta rivendicare più risorse e più impegno ridistributivo per il Sud; e neppure è sufficiente elencare alcune ragionevoli priorità economiche degli investimenti. Quello che tu suggerisci è di ragionare anche, e soprattutto, sulle trasformazioni di fondo della società.

C. Proprio così. Quel che veramente serve è di intervenire contemporaneamente su tutti i punti del vivere sociale: sugli spazi della produzione e del lavoro non meno che su quelli del vivere e delle relazioni interpersonali; e soprattutto di intervenire avendo in testa, ancor prima che un modello di economia, proprio un modello di società. E’ questo il nodo di fondo: la sfida del Sud si pone oggi esattamente sulla linea di confine dell’alternativa di sistema. Per essere ancora più espliciti, possono davvero valere nel Sud di oggi, anche più che in altre parti del nostro paese, la logica conflittuale dei diritti e la prospettiva della piena cittadinanza umana per tutte e per tutti. Il ragionamento va fatto, fin da subito, oltre che dal versante dell’economia, anche da quello della cultura e della politica; e, per giunta, come politica di alternativa.

R. Allora è proprio in questo Sud disarmonico, che avrebbe più senso proporre le acquisizioni sulle quali il movimento dei movimenti ha insistito negli ultimi anni: i processi di de-crescita, la critica del consumismo, la difesa dei beni comuni, l’apertura comunicativa… Proprio in questo Sud, che vede le concentrazioni urbane caotiche e invivibili, e al tempo stesso la dorsale appenninica in fase di progressivo spopolamento, andrebbero dunque sperimentati il ciclo breve di produzione e consumo, l'energia pulita e il recupero ambientale come riqualificazione non solo degli habitat ma dell'intero vivere sociale...

C. Sì, Rosa. Ed ovviamente una tale prospettiva andrebbe tradotta in obiettivi ragionevoli, che creino uno schieramento ampio, a partire dalla rivendicazione di una nuova stagione di programmazione economica, con un nuovo intervento pubblico in economia, caratterizzato da precisi vincoli sociali. Io, per esempio, giudicherei positivamente una ripresa della politica industriale nel nostro Mezzogiorno, guidata dallo Stato, e riterrei riduttiva una prospettiva che assegni alle regioni meridionali un ruolo di pura piattaforma logistica. Ma aggiungo subito che, poste così, nessuna delle due opzioni sarebbe risolutiva. Occorre una qualificazione sociale degli investimenti, una loro aperta finalizzazione in direzione del modello di società. Diventa stringente, insomma, il tema del “cosa” produrre, del “come” produrre, del “quanto” produrre.

R. Di più ancora, Carlo: la questione riguarda immediatamente la qualità del vivere sociale. E ciò chiama in causa certamente il protagonismo diffuso delle persone e delle comunità che chiedono a gran voce le bonifiche ambientali, o gli interventi di riassetto urbano, o la incentivazione delle produzioni tradizionali ed eco-compatibili…

F. Non solo, cari miei. Chiama in causa anche un intervento attivo per il sostegno al reddito dei disoccupati, e allo stesso tempo una diffusione davvero ampia della formazione e dell’istruzione. Sollecita pure il rilancio, e nel Sud sarebbe una novità, della realtà cooperativa. E chiama in causa anche una relazione positiva con i paesi del Mediterraneo, in particolare con i paesi della sponda sud. Il nostro Mezzogiorno è un crocevia naturale. E può dunque diventare un crocevia organizzato di relazioni, di cooperazioni e di scambi, in un clima di reale apertura e reciprocità. Il Sud dell’Italia è, concretamente, l'Europa nel Mediterraneo; contemporaneamente esso è il Mediterraneo che dialoga con l’Europa. E’ con questa visione che dovremmo saper utilizzare le stesse occasioni offerte dalla Comunità europea...

C. Fermiamoci qui. Non è necessario andare oltre. Mi pare che con l’esemplificazione del Sud la questione della concretezza del conflitto sui diritti di cittadinanza umana si risolva in modo positivo…

R. Già. Anche stavolta dobbiamo darti ragione.

F. Eppure, mica tutto fila liscio. Promuovere il conflitto sulla cittadinanza umana e riproporre l’alternativa di società, e il comunismo come liberazione del corpo, degli affetti, della cultura e della natura, per stare al tuo suggestivo elenco, implica una soggettività politica, concretamente un partito con caratteristiche tutte nuove. Ma c’è questo partito?

C. La domanda è pertinente. Ma non vi sembra, vista l’ora, che potremmo anche parlarne la prossima volta?