sabato 10 maggio 2008

Dialoghi sulla sconfitta / 1

DIALOGHI ALL'INDOMANI DI UNA SCONFITTA di Rino Malinconico

parte prima: LE SPIEGAZIONI DEBOLI


ROSA Sei molto pensieroso, Carlo. A cosa pensi?

CARLO Penso che bisognerebbe tacere di più prima di parlare.

FEDERICO Ma in questo momento? E con questo sbandamento generale dei compagni?

C. Proprio per questo. Proprio perché quello che è accaduto è davvero la chiusura di un’epoca, non si può reagire con il primo umore che s’agita nel cervello o nelle viscere.

R. Con chi ce l’hai?

C. Con quello che ho sentito in queste ore.

F. Certo, sono ancora balbettii; ma è comunque normale che i compagni, ciascuno con una determinata accentuazione, provino a spiegare, a sé e agli altri, quello che è accaduto.

C. Spiegare? Spiegare è un’azione complessa.

R. Vuoi dire che le spiegazioni date non sono ancora convincenti?

C. Intanto sono già state date distinte spiegazioni, anche opposte tra loro. Ma non è questo il punto, perché non si tratta di scegliere ora quale sia la più giusta; e neppure quale sia la meno contraddittoria. Io dico che è sbagliato il contesto che le regge, codeste spiegazioni. Direi quasi che sono sbagliati i soggetti che le propongono.

R. Spiegati.

C. Voglio dire che la nostra casa, la casa che abbiamo costruito in tutti questi anni, dal principiare degli anni ’90 ad oggi, quella che i giornali chiamano la Sinistra antagonista…

R. Ebbene?

C. Ebbene, questa casa è completamente terremotata. Di più: è irrimediabilmente terremotata. E sotto le sue macerie ci sono concretissimi cadaveri…

R. E’ una metafora forte. Anche troppo macabra.

F. Ma la sua premessa è stranamente “di destra”, e non me lo sarei aspettato da parte tua. Pare quasi che senza rappresentanza istituzionale non c’è più un partito, un soggetto che possa coltivare l’orizzonte della trasformazione.

C. Non sostengo affatto questo. Tra i numeri, quello che mi spaventa davvero non è lo 0 in seggi, ma il 3% in voti.

F. Cioè?

C. Dico che se la legge elettorale fosse stata ancora peggiore, con uno sbarramento al 10%, come è stato in Francia per tanti anni, e noi fossimo arrivati, che so, giusto al 9%, allora, pur senza eleggere alcun parlamentare, non avremmo certo una casa terremotata, e il dato non avrebbe potuto essere giudicato in termini negativi. Ci saremmo sentiti ovviamente delusi e avremmo recriminato; ma non saremmo precipitati nel dramma.

F. Sì, capisco quello che vuoi dire. Il risultato elettorale è drammatico non tanto perché comporta una cancellazione dalle aule parlamentari, ma perché allude soprattutto ad una cancellazione dalla coscienza civile del nostro paese…

R. Piano compagni, neppure dobbiamo esagerare con le parole… appena due anni fa, l’insieme delle forze de La Sinistra l’arcobaleno stava oltre il 10%: mi pare 10,2 alla Camera e 11,5 al Senato. E ciò, senza neppure considerare l’apporto di Sinistra democratica. Come non è stato stabile quel risultato lusinghiero, potrebbe anche non esserlo questo drammatico di oggi. Tra un anno potrebbe tutto nuovamente cambiare, e stavolta in meglio.

C. E’ un ragionamento anche questo.

R. Allora convieni?

C. No. Dico che è un ragionamento, ma con la debolezza tipica dei ragionamenti che procedono per analogia.

R. E come si dovrebbe ragionare, se non comparando le situazioni e prendendo spunto da ciò che si è verificato in passato?

C. Bisogna ragionare sul concreto contesto di oggi, sulle dinamiche che si sono attivate e sull’insieme dei dati che abbiamo. Il 3% a La sinistra l’arcobaleno è solo un pezzo del quadro. Messo assieme ad altri, io temo che ci consegni, almeno per i prossimi anni, per tutta una fase di medio periodo, un punto di non ritorno. Purtroppo.

R. Ma allora quelli che invitano a reagire sbagliano?

C. Occorre vedere come si invita a reagire…

R. E come vuoi che si articoli un invito a reagire? Si dice di continuare, di riprendere il cammino…

C. Per reagire davvero occorre capire bene quello che è accaduto e il punto in cui si è.

F. C’è poco da capire: siamo a un vero disastro politico.

C. Certo. Ma le parole devono essere colte in tutta la loro densità, facendosi attraversare pienamente da tutta la loro forza. E’ un disastro vero, non una grave sconfitta. Non è una Caporetto, ma una Waterloo. Dopo Caporetto ci fu il Piave. Dopo Waterloo, si aprì definitivamente una nuova epoca, con tutto un nuovo corredo di immagini e parole: da Sant’Elena alla Restaurazione, dalle insorgenze democratiche e nazionali alle prime organizzazioni socialiste, dalla nuova filosofia tedesca alla nuova geografia industriale…

R. Ma allora tu sei ancora più pessimista di noi e di tutti gli altri compagni.

C. Non scambiare il realismo per pessimismo. Chi non si pone il problema di riconsiderare preliminarmente la propria capacità di percezione della realtà, non solo avrà maggiori difficoltà a darsi una prospettiva, ma non riuscirà a capire bene neppure dove si trova. A me pare che ci sia troppo irrealismo nelle nostre file. Anche ora, anche dopo che il disastro si è reso evidente e incontestabile.

R. Che intendi per irrealismo?

C. Per esempio, mi paiono del tutto irrealistici quelli che dicono che la prima cosa da fare sia di accelerare comunque nella direzione già tracciata dalla proposta de La Sinistra l’arcobaleno. E sono irrealistici pure coloro che pensano che quella strada sia comunque quella giusta, e che vada percorsa semplicemente con un po’ di prudenza in più.

R. Perché li chiami irrealistici?

C. Per quanto concerne quelli del primo tipo, cioè quelli che dicono: andiamo avanti ancora più velocemente, la risposta è fin troppo facile, tanto più che la loro argomentazione fondamentale –“sarebbe peggio tornare indietro” – si scontra col fatto obiettivo (e cioè non con una semplice opinione contraria) che il treno non può andare più né avanti e né indietro, ma è lì scomposto di fronte a noi: è deragliato, le carrozze sono fuori dai binari, alcune addirittura giacciono riverse lungo la scarpata. Esortare gli attoniti passeggeri, ammaccati e sanguinanti, ad accelerare è davvero una bizzarria.

R. L’osservazione che fai è sicuramente comprensibile. Ma perché sarebbe irrealistico anche il ragionamento di chi dice di continuare nella stessa direzione? con un percorso più calibrato e tempi più distesi?

C. Perché detto così non significa davvero niente. O si tratta di un generico invito a puntare ad una aggregazione più ampia, a raccogliere ciò che di sinistra si muove nella società, e allora non v'è chi non sia d'accordo. Oppure il discorso vuole essere una indicazione pratica, e allora si dà prova di non aver capito il punto in cui si è.

R. Cioè?

C. Cioè che siamo ad una situazione molto prossima allo zero. Per tornare all'esempio del treno: esso semplicemente non c'è più. Deve essere ricostruito, e forse non è neppure detto che debba trattarsi di un treno; ma ci vorranno comunque degli anni. In ogni caso, lo si potrà costruire soltanto se intanto ci si incammina con l'unica cosa che abbiamo ora: le nostre gambe. Ci aspetta una non breve traversata del deserto.

F. Quello che però io mi chiedo è come sia stato possibile un risultato così disastroso. Una delle ragioni è certamente il nostro distacco da quello che pure dovrebbe essere il nostro riferimento fondamentale, e mi riferisco al proletariato. Non sei d’accordo, Carlo? Molto del disastro non dipende dal fatto che siamo andati così poco davanti ai cancelli delle fabbriche?

C. C'è sicuramente un pezzo di verità in quello che dici, ma è molto, troppo parziale. La questione non è la presenza ai cancelli delle fabbriche, o negli altri variegati universi del lavoro dipendente, anche perché, almeno in determinate circostanze, i compagni ci sono anche stati; la questione vera è che, se pure incontriamo fisicamente i lavoratori, rischiamo comunque di non aver molto da dire all’insieme del proletariato.

F. Ma è la stessa cosa che ho detto io.

C. No. Io sostengo che noi non avevamo molto da dire, e non l’abbiamo neppure adesso, anzitutto perché non abbiamo maturato una comprensione vera di come le fabbriche, le infrastrutture, gli uffici, i servizi, le reti logistiche, i luoghi della distribuzione e tutto l’insieme del tessuto economico si siano scomposti. Il comportamento elettorale delle cinture operaie del nord è la spia evidente di una scomposizione profonda del proletariato. E segnali li abbiamo registrati anche negli anni scorsi. Un esempio è dato dalla parabola discendente del sindacalismo di base, che pure ancora un decennio fa sembrava essere un evento significativo, una novità importante, mentre oggi stenta finanche ad essere rappresentato nelle rsu. Ed è significativa anche l'esperienza di isolamento vissuta in CGIL dalla FIOM, peraltro anch'essa un sindacato con molte facce, non tutte bellissime.

F. Stai parlando delle difficoltà della classe operaia…

C. No, sto parlando della difficoltà degli operai, degli impiegati, dei commessi, e di tutto i lavoratori subordinati a divenire “classe”. E per quanto riguarda noi sto parlando delle nostre illusioni: abbiamo oscillato tra l’assunzione della FIOM come esemplificazione del tutto, come se fosse molto più di un sindacato, ed anzi essa stessa né più né meno che “la classe operaia”, e la corrispondente sottovalutazione delle ricadute storiche e sociali dei processi di scomposizione e ricomposizione interna al tessuto produttivo. Da un lato i compagni parlavano coi sindacalisti e pensavano di aver parlato con la “classe”; dall’altro si dava comunque per scontato che la classe era là e che il problema era solo di rappresentarla. Ma se gli operai, e i proletari in genere, nel cui numero vanno comprese tutte, ma proprio tutte le variegate figure del lavoro dipendente di oggi, non riescono poi a muoversi come corpo collettivo, e sviluppano soltanto mugugno e rancore, la prospettiva nostra viene intaccata proprio alla radice…

R. Io credo ho che non bisogna andare tanto lontano con l'analisi. Si rischia di perdere di vista le cose più semplici: per esempio, il peso devastante che ha avuto l'esperienza di governo. Abbiamo ingoiato troppi bocconi amari nel governo Prodi.

C. Questo è vero. Ma anche qui bisognerebbe scendere un poco più in profondità.

R. Che vuoi dire?

C. Che è stata la nostra debolezza strutturale a provocare la nostra debolezza politica, e non viceversa. Proprio perché eravamo, e siamo, poca cosa sul piano della società, eravamo poca cosa anche sul piano del governo, nonostante il numero rilevante di parlamentari. La nostra debolezza strutturale ci metteva continuamente in una condizione di difficoltà nella articolazione politica. Noi siamo stati dentro il governo Prodi ingoiando tutti i bocconi amari che sappiamo, e abbiamo scelto di farlo in un quadro di resistenza rispetto alla pressione di Berlusconi. E’ difficile negare come tale tattica non sia stata né compresa e né accettata dalla maggioranza di coloro che ci hanno votato nel 2006. Ma esisteva un'altra tattica possibile?

R. Dovevamo staccarci da Prodi. Questo dovevamo fare!

C. Staccarci quando? Rifiutando di fare l'alleanza nel 2006? Ed era possibile una tale scelta dopo cinque anni di governo Berlusconi? Se oggi ha pesato il “voto utile”, che sarebbe successo allora, se non avessimo fatto coalizione col centrosinistra?

R. No, non dico che dovevamo andare da soli nel 2006. Questo no. Potevamo però fare un accordo di desistenza, invece che un’alleanza organica.

F. Questo davvero non mi convince. Al di là del fatto che c'era un precedente non positivo anche sulla desistenza, con un suo successivo esito di lacerazione che la rendeva comunque impraticabile, è noto che gli altri, lo stesso Prodi, non avrebbero accettato. No, su questo Carlo ha ragione. Nel 2006 dovevamo fare l’alleanza. E però, proprio alla luce del risultato elettorale, con Prodi che vince per soli 24 mila voti, potevamo rifiutarci di dar vita al governo ed indicare, come cosa più naturale, o nuove elezioni, o un governo istituzionale, senza di noi, che si cercasse i voti volta per volta in parlamento. Avremo avuto una situazione meno ingessata, e noi saremmo stati comunque più autonomi.

C. Certo, lo si poteva fare. Ma bisognava avere, appunto, spalle molto robuste, essere davvero capaci di parlare al paese e di far comprendere una scelta tanto difficile e complicata. Così come bisognava avere spalle molto robuste per far cadere Prodi, nel pieno delle spallate di Berlusconi.

F. Sulla questione del Welfare c’erano più spazi per farlo.

C. Davvero lo credi? Dopo che c'era stato un referendum sindacale dall'esito inequivocabile, e ciò anche considerando i possibili brogli tra i pensionati e in diverse altre categorie? Ma in ogni caso anche una tale scelta presupponeva un partito dalle spalle robuste, capace di reggere il confronto non solo in parlamento ma proprio nel paese. Erano queste spalle a mancare. Mancava, come si è visto troppo bene ora, un sufficiente insediamento sociale del nostro partito e delle altre forze della sinistra. Torniamo perciò al punto di partenza, alla debolezza sociale che generava continuamente debolezza politica…

R. Ma allora qual è la tua tesi? Che avremmo dovuto far parte per noi soli da qualche decennio e puntare ad una vita identitaria?

C. Neppure questo, mia cara Rosa. Proprio le identità sono state scosse per prime dalla storia: il ‘900 ha segnato contemporaneamente l’apogeo e la crisi delle identità. Questa verità l'abbiamo capita, almeno in parte, tanto è vero che abbiamo ragionato in termini di nuovi innesti. La stessa dizione “rifondazione comunista” significava proprio questo. Ma i nuovi innesti da dove potevano venire se non dal dialogo sociale? da un reale camminare nel mondo?

R. Non capisco allora il senso di quello che dici.

C. Bene, allora la dico così: o si è trozkisti, bordighisti, terzinternazionalisti e quant'altro, oppure si tenta di essere comunisti all'altezza dei tempi. Ed essere comunisti all'altezza dei tempi non significa celebrare l'identità, ma metterla costantemente in gioco. Poi si possono anche fare errori tattici, ma la strategia non può essere che quella di incidere nella società. Il detto latino “dixi et salvavi animam meam”, e cioè “dico quello che penso, e per il solo fatto di averlo detto ho fatto tutto quello che mi spettava di fare” è esattamente l'opposto di quello che realmente dovevamo e dobbiamo fare.

F. Forse comincia ad essermi chiaro il senso di quello che tu stai dicendo. In sostanza tu ritieni che abbiamo giustamente provato ad andare avanti, ma che abbiamo proceduto comunque con un grave peso sulle spalle, consegnatoci dalla storia: la frantumazione della struttura della classe, la conseguente nostra debolezza nelle dinamiche sociali, la crisi dei modelli di identità.

C. Esatto.

R. Ma se pure è così, ciò non toglie che la sinistra arcobaleno sia stata una scelta precipitosa, che ha aumentato i fattori di sbandamento. Probabilmente saremmo andati meglio se ci presentavamo come “rifondazione comunista”.

C. Non c'è controprova: si può sostenere tutto e il contrario di tutto. E’ però maggiormente verosimile che quattro liste a sinistra del partito democratico avrebbero conosciuto lo stesso un destino amarissimo. Già ora le due liste con la falce e martello hanno preso insieme giusto quando serviva ad arrivare al 4%.

F. Ma con questi chiari di luna forse è stato addirittura meglio il secco 3% anziché il 4, 4,2, 4,3. Con un po' di deputati, ci saremmo ancora illusi di poter andare avanti allo stesso modo e di poter continuare nella stessa direzione, senza la chiarezza dei nostri limiti di fondo, limiti che l’esito del voto ci ha finalmente svelato.

C. Io però su questo punto della sinistra arcobaleno farei un ragionamento più articolato. Rifondazione comunista è nata esattamente per mettere insieme le culture critiche del capitalismo, e per ricostruire, in tale prospettiva, una nuova sinistra in Italia. La sinistra arcobaleno può anche intendersi come un tentativo in tale direzione. Ovviamente va subito detto che il tentativo è fallito, e in ciò ha pesato anche il carattere totalmente verticistico e contingente dell’aggregazione. In ogni caso, non è più riproponibile, neppure se si toglie la parola “arcobaleno” e si lascia solo la parola “sinistra”. Il punto è che quattro debolezze non fanno una forza, tanto più se alle debolezze si aggiungono confusioni e ambiguità finanche riguardo al giudizio sul capitalismo. Ci siamo scontrati anzitutto con i nostri vuoti strutturali, ma anche col fatto banale che le culture che si mettevano assieme non erano neppure molto critiche. E probabilmente è vero che non sempre si può ragionare col principio di accontentarsi di quello che passa il convento. Tuttavia, non farei della scelta in sé, e neppure del modo come è stata perseguita, la base di fondo per spiegare il nostro disastro. Al di là della debolezza strutturale di fondo di tutta la cosiddetta “sinistra antagonista” - la qual cosa, lo ripeto, è la ragione fondamentale di un disastro che covava da gran tempo sotto le ceneri-, quello che ha pesato di più è stato il fatto di essere percepiti, ancor prima della “sinistra arcobaleno”, alla stregua di una “casta” o, considerando le proporzioni, di una “sottocasta”. Hanno pesato di più, a me pare, le nostre pratiche concrete, il nostro politicismo quotidiano, il nostro quotidiano orizzonte istituzionale: vale per i nostri alleati, ma vale largamente anche per Rifondazione comunista. Un esempio è dato dalla stessa composizione delle liste.

R. Allora aveva ragione Beppe Grillo.

C. In parte sicuramente. Anche da noi ha lievitato negli anni una piccola “casta rossa”, formatesi nella fase finale del PCI e nella parabola del sindacato delle compatibilità, la quale è per sua natura portata a una pratica politica di galleggiamento, di semplice galleggiamento. Il che non vuol dire che il progetto politico di Rifondazione fosse “di galleggiamento”. Tutt’altro. Era ed è un progetto alto, ma non mancavano, e non mancano, corposissimi chiaroscuro al suo interno.

R. Ma io mi chiedo se non ci fosse anche un problema di programma: proprio delle cose che diciamo, al di là della qualità delle nostre pratiche. Il nostro programma forse era poco realistico e sicuramente lo abbiamo anche comunicato male.

C. Non mi persuade questo rilievo. Noi non abbiamo propagandato mica la rivoluzione. Se si parla di difesa ambientale, di diritti di cittadinanza, di sviluppo ecosostenibile, di una programmazione pubblica dello sviluppo che valorizzi i territori, mica si dicono cose poco realistiche! Invece eravamo noi a non essere credibili. Le nostre parole forse sì, noi no. Insomma, per dirla con una battuta, non è giusto sostenere che abbiamo perso perché siamo stati troppo radicali. Abbiamo perso perché non si può essere radicali senza un legame reale con le dinamiche sociali. E’ questo che non abbiamo costruito. E non l'abbiamo costruito anche perché non abbiamo fatto i conti fino in fondo con la chiusura del ‘900.

R. Ma qui si apre il ragionamento addirittura sui massimi sistemi.

C. Sì. Ma proprio questo è il cuore delle questioni: esattamente un ragionamento sui massimi sistemi. Ovviamente, non pretenderete mica che lo facciamo adesso. Per ora questa conversazione possiamo anche fermarla qui.

R. Ma non si può lasciare la discussione proprio sul più bello.

C. Non la lasciamo affatto. Dico solo di mettere ora un punto e rivederci tra qualche giorno.

F. Allora sono solo dei punti sospensivi.

C. Sì, solo dei punti sospensivi.


Napoli, 15 aprile 2008
RINO MALINCONICO

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